Vivere insieme, come persone di fedi diverse richiede, innanzitutto, una volontà reciproca di ascoltare, un’apertura a mettere in discussione come uno si percepisce e l’essere aperti a capire gli altri così come sono.
Il modo in cui ci percepiamo reciprocamente è spesso sfocato. La modernizzazione ha avuto grandi effetti di secolarizzazione, in alcuni luoghi più che in altri, ma ha anche provocato movimenti potenti contro la secolarizzazione. In alcuni casi estremi i popoli combattono nel nome di religioni in cui hanno smesso di credere. Ci sono conflitti tra comunità che hanno un passato religioso, ma il cui contenuto religioso non ha importanza. Religioni a cui le persone credono poco, continuano a essere definite come comunità nelle quali invece hanno molta fede. È per questo fondamentale, distinguere tra movimenti politici che possono essere genuinamente ispirati dalla religione e quelli che usano la religione come comoda legittimazione di agende politiche che servono interessi non religiosi.
Nel mondo musulmano, modelli di pensiero ideologici rappresentano il mondo occidentale come egoista, materialista e dominante. In Occidente, i corrispondenti modelli di pensiero percepiscono l’Islam come irrazionale, fanatico ed espansionista. Nell’epoca della comunicazione globale e della migrazione, questi modelli di pensiero alimentano l’antagonismo.
Tali percezioni sono spesso costruzioni immaginarie esacerbate dal paradosso della globalizzazione. Lo sviluppo del consumismo e dell’intrattenimento televisivo globale, ha prodotto una uniformazione culturale senza precedenti. Ma più gli individui, e i popoli, si assomigliano, e più sentono il bisogno di affermare le loro differenze. In molte società le persone corrono il rischio di vivere nel ‘peggiore dei due mondi’: un mondo culturalmente omogeneo e uno dove la ricerca di identità e comunità si realizza con l’ostilità verso l’altro.
Se, da un lato, i rapporti tra popoli di fedi e culture diverse sono fortemente influenzati dalle storie locali e regionali, questi sono sempre più influenzati dagli sviluppi mondiali. Quando le comunità sono identificate in modo esclusivo o persino esagerato dalla loro religione, le situazioni tendono a diventare più esplosive. Le religioni fanno appello a lealtà universali che possono essere viste, in alcune società, come una causa di tensione o conflitto. Ma, molto spesso, queste non sono altro che un aspetto che intensifica controversie le cui cause principali sono esterne alla religione.
Ci sono casi in cui un conflitto in un luogo - con le sue cause e il suo carattere locale - viene percepito e strumentalizzato come parte di un conflitto in un altro luogo. Così, inimicizie in una parte del mondo, si manifestano in situazioni di tensione in altre regioni. Un atto di violenza in un luogo è usato per confermare gli stereotipi del ‘nemico’ da un’altra parte o anche provocare attacchi di vendetta in altri posti del mondo. Inoltre, non è insolito vedere che popoli non in grado o non disposti a combattere coloro che hanno causato la loro rabbia, cercano sostituti e li trovano facilmente. A volte i vicini si ritengono reciprocamente responsabili di torti attribuiti ai loro correligionari in un altro luogo. A meno che non siano pronti a dissociarsi pubblicamente da coloro con cui condividono la fede, sono accusati di complicità con essi.
Vivere insieme In pace, richiede contrastare questi processi. In altre parole, potrebbe essere necessario ‘deglobalizzare le tensioni interreligiose e interculturali’. L’attenzione alle cause locali specifiche di tensioni e conflitti aiuta a identificare delle soluzioni. Questo non è possibile a meno che I leader di entrambe le comunità non si rifiutino di essere attirati nei conflitti altrui quando viene chiesta una risposta acritica di solidarietà tra gli aderenti a una fede. Fede e convinzioni religiose sincere possono allora costituire una base per un impegno critico nei confronti della debolezza umana e degli ordini sociali ed economici difettosi.
La cultura di vivere insieme è la cultura del dialogo di vita. I principi di cittadinanza, uguaglianza, legge e diritti umani sono al cuore del ‘dialogo di vita’. Per le persone di fede è cruciale affermare l’indivisibilità dei diritti umani, riconciliare i diritti dell’individuo con quelli delle comunità e aiutare le vittime, qualsiasi sia la loro identità etnica o religiosa. Di conseguenza, la difesa dei diritti umani non può essere condizionata dalla solidarietà confessionale, non importa quanto legittima.
Allo stesso modo una lucida comprensione dei rapporti tra violenza e religione deve essere l’oggetto di rinnovata attenzione. A volte sembra esserci una tendenza impaziente a cercare una spiegazione degli attacchi criminali nella giustificazione della violenza nelle Scritture o nella religione. Di conseguenza, i fattori non religiosi che determinano la violenza simbolica e storica non vengono esaminati in maniera adeguata - tanto meno esaustiva - prima di rivolgersi alla sfera religiosa. Si privilegia ‘l’anatomia’ della violenza rispetto alla sua ‘genealogia’. Quando alcuni ritengono l’educazione religiosa tradizionale responsabile di diffondere una cultura dell’odio non riescono a vedere che non sono i valori religiosi tradizionali a condurre la gente alla violenza bensì la loro perdita, senza molto in contraccambio: il che spiega la frustrazione, il lamento e la ripugnanza. La violenza non può essere spiegata dall’odio ancestrale, poiché l’odio ancestrale è reinventato e persino creato dalla violenza moderna. Resta vero, tuttavia, che le tensioni e i conflitti riguardanti l’identità e i valori sono più difficili da prevenire e risolvere perché il loro oggetto non è quantificabile, non è parte di quello che hanno ma piuttosto costitutivo di quello che sono.
Questo è il motivo per cui vivere insieme – o il dialogo della vita – non può obbedire alla logica della negoziazione, poiché esso implica essere pronti a sospendere il proprio giudizio sui valori e tale sospensione invita all’umiltà intellettuale. L’umiltà non è un concetto che la maggior parte della gente è disposta a sostenere. Si può concedere che sia una virtù solo degli uomini e delle donne di profonda fede. Il tratto che definisce la nostra epoca sembra essere l’arroganza, non solo tra coloro che esercitano il potere o accumulano ricchezza.
L’umiltà intellettuale è la condizione necessaria per il dialogo. Non è un invito al relativismo, ma un modo per ricordarci che molte questioni sono soggette al dubbio.
Trovare un equilibrio tra umiltà intellettuale e convinzione morale è una lotta difficile. Il rispetto per le rivendicazioni di verità altrui e la volontà a sospendere il nostro giudizio sulla fede di coloro con cui siamo in disaccordo possono essere caratteristiche salienti dell’umiltà intellettuale. Ma l’umiltà non contraddice la certezza morale. Ci sono stati molti modi di rendere universale e legittimare la certezza morale. Alcuni hanno evidenziato la convergenza dei comandamenti religiosi – il primo di questo ‘la regola d’oro’, il principio di trattare gli altri come si desidera essere trattati. Altri hanno basato la loro certezza morale sulla legge naturale o la funzionalità sociale.
In conclusione, abbiamo bisogno di ricordarci che né le contingenze storiche, né le differenze nel colore della pelle, etnia, lingua, eredità culturale e credo religioso sono contro la nostra comune umanità. Ma, mentre affermiamo la comune umanità, è necessario diffidare di un universalismo anonimo o astratto. È necessario ampliare lo spazio tra universalismo anonimo, incline al controllo egemonico, e fanatismo etnocentrico. Questo mi riporta all’inizio del mio discorso. Condizioni di parità e uguale partecipazione sono una condizione necessaria per il dialogo di vita, per questo non sono un atto di condiscendenza o carità da parte del più forte verso il più debole. In realtà il più debole può benissimo possedere la forza, reale o potenziale, di dare legittimità al potente. Inoltre, coloro che si ritengono invincibili devono ricordare di essere vulnerabili.