7 Septiembre 2015 09:30 | Catedral de la Resurrección de Cristo (Catedral Ortodoxa)
Intervento di Tamás Fabiny
A proposito dell’Europa esistono un mito ed un sogno, ed è necessario distinguere tra i due. Il mito risalente alla mitologia greca è ben conosciuto: Zeus si innamorò della bella principessa fenicia Europa. Il dio si trasformò in un toro bianco e rapì la principessa portandola con sé sul mare fino all’isola di Creta. Europa generò tre figli a Zeus. Secondo la leggenda, il nostro continente ha preso il nome dalla principessa asiatica.
Un elemento di questo mito è il “mondo diviso” cui fa riferimento il titolo del panel di oggi. La divisione è sempre legata al potere ed al cattivo uso dell’autorità – nella maggior parte dei casi in senso politico ed economico.
Ma oltre a ciò, noi sappiamo anche di un sogno che rinvia ancora verso l’Asia. Come è scritto in Atti 16, un uomo della Macedonia apparve a Paolo durante la notte, dicendo: “Vieni … e aiutaci!”. Questa è una richiesta d’aiuto dalla profana Europa agli Ebrei ed alla nascente Cristianità. Paolo rispose alla richiesta d’aiuto e si recò a predicare il Vangelo anche in Europa, rianimando il già indebolito contesto greco-romano. Da quest’opera nacque una nuova Europa.
Con tutto il rispetto per la cultura antica, sono certo che oggi dobbiamo rappresentare il sogno collegato all’Europa – e non il mito. Perché quel mito è pagano e quel sogno è cristiano. Sia nella parte occidentale che in quella orientale del continente, possiamo tutti testimoniare quanti elementi della tradizione cristiana vengano abbandonati dai popoli – e anche dalle chiese. Per l’Europa è una facile via per sprofondare in una condizione pagana, neo-pagana. È per questo che noi tutti dobbiamo ascoltare le grida che dicono: “Vieni … e aiutaci!”. Riuscite ad udire quel grido dell’Europa secolarizzata, prossima a dimenticare come pregare, come cantare, come rendere gloria? Riuscite ad udire quel grido?
Se riusciamo a sentirlo, dobbiamo rispondergli con chiarezza. A volte con parole, a volte con la testimonianza profetica. Èciò che fece l’Apostolo Paolo: predicò la Parola nel tempo opportuno ed in quello non opportuno. Si recò all’Areopago, raccolse la sfida di incontrare e confrontarsi con diverse filosofie ed ideologie, ma d’altro canto fu determinato a “non sapere altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso”.
In quanto luterano, mi sento indirizzato verso la teologia della croce, che Lutero contrappose alla teologia della gloria. La chiesa necessita di prendere ripetutamente quella decisione: se voglia avere un posto al sole o se possa sopportare di restare nell’ombra. Essa cerca i favori del potente o si identifica col povero e l’oppresso? La tentazione di seguire la teologia della gloria non era presente solo nel medio evo ma anche nei tempi contemporanei. Ad Est come ad Ovest.
Un teologo giapponese ha scritto un libro intitolato “No Handle on the Cross” (La Croce non ha maniglie). Proviamo ad immaginare la seguente paradossale situazione: delle persone hanno intenzione di seguire Cristo, ma la croce non è sulle loro spalle, bensì nelle loro mani. È dotata di un’elegante maniglia di cuoio, così che la possono far ciondolare come se fosse una ventiquattrore portata da un uomo d’affari. Ma sulla croce non ci sono maniglie. Gesù la trasportava nella più scomoda posizione possibile. La croce lo feriva, straziava la sua pelle, il suo peso lo schiacciava a terra. La chiesa può essere credibile solo con la croce sulle spalle – o, nelle parole di Lutero, in forma di croce.
Quest’atteggiamento non si manifesta soltanto con le parole. In molti casi ci è necessario un servizio silenzioso e umile. Il sacrificio di sé. In quanto chiesa, non abbiamo sempre bisogno di essere in mostra o di volere attenzione.
Esiste una distinzione corrente tra chiesa visibile e chiesa invisibile e quest’ultima, la chiesa invisibile, è provocata dal martirio e dalla povertà.
Stiamo facendo una conferenza in un Paese che può darci esempi di entrambi. La conferenza è stata organizzata da una comunità che pure pone l’accento su queste due caratterizzazioni ecclesiali.
All’inizio, ho messo a confronto il potente ed autoritario mito di Europa col sogno europeo. L’”unità cristiana” cui pure fa riferimento il titolo del panel di oggi è parte di questo sogno. L’unità non è creata da noi; è la condizione originaria. Gli esseri umani sono capaci soltanto di distruggere e fare a pezzi l’unità. L’Apostolo Paolo parla del corpo umano e delle sue parti in relazione all’unità. Se il corpo è sano, tutte le parti funzionano in forma coordinata, completandosi e sostenendosi a vicenda.
Io leggo il più grosso problema europeo dei nostri tempi, le migrazioni, nello stesso contesto. Da una parte, non c’è dubbio che le chiese debbano essere attivamente presenti nelle possibili soluzioni di questo problema. D’altra parte, il problema richiama la nostra attenzione sul fatto che dobbiamo rinunciare al nostro ambiente sicuro, aiutare l’altro e accogliere gli stranieri.
Nel racconto biblico che ho menzionato all’inizio di questo intervento, era l’Europa a chiedere aiuto.Ecco come Paolo e i suoi compagni arrivarono fin qui con la Buona Novella. In altre parole, possiamo dire che il Cristianesimo fu un dono all’Europa proprio dal Medio Oriente. Ora, pensando ai Cristiani perseguitati in Siria e altrove, è il nostro turno di rendere qualcosa di questo aiuto. Ciò che dovremmo dare costituisce l’essenza del Cristianesimo: amore e misericordia.
Possiamo esser rafforzati nei nostri sforzi dal versetto biblico che costituisce il versetto per l’anno 2015 nelle nostre congregazioni: “Accoglietevi l’un l’altro come Cristo ha accolto voi, a gloria di Dio”.
Sono consapevole che la questione dei rifugiati ha diverse sfaccettature. Ma essere consapevoli della complessità politica non è una scusa per trascurare la nostra responsabilità cristiana, che è di manifestare misericordia indiscriminatamente, se necessario. Ciò è evidenziato nelle parole profetiche di Mt. 25: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto…”. Sappiamo che nella pratica è spesso il contrario ad accadere: “Non mi avete dato da mangiare, … non mi avete dato da bere, … non mi avete accolto”.
Leggendo la fine del libro degli Atti, mi sono sentito mortificato. Nel cap. 27, Paolo e i suoi compagni sono prigionieri e vengono trasportati verso l’Italia per nave. I marinai sono ostili alle centinaia di prigionieri rinchiusi a bordo. Questi non hanno mangiato per settimane. Improvvisamente fanno naufragio ed i soldati vogliono uccidere i prigionieri. Alla fine, essi riescono a prender terra a Malta – alcuni a nuoto, alcuni afferrandosi ai relitti. Quel che successe dopo è descritto da Luca, l’autore del libro, con le seguenti parole: “I barbari abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo”. Persino genti barbare sono capaci di tali atti di misericordia.
Nel mio Paese, l’Ungheria, la situazione dei rifugiati è drammatica. Vorrei dire che la chiesa non dovrebbe seguire i politici, gli economisti o i sociologi, ma intraprendereil proprio cammino. Per esser più precisi: il cammino assegnato da Gesù. Questo è lo spirito manifestato nella dichiarazione rilasciata dalla Comunità di Sant’Egidio in Ungheria. Essa ha preso apertamente posizione contro la recinzione di filo spinato costruita sul confine ungaro-serbo. Ha anche espresso le proprie preoccupazioni circa la proposta di legge che qualificherebbe come reato penale “l’attraversamento non autorizzato della barriera confinaria”; od autorizzerebbe la polizia ad entrare senza mandato giudiziario nelle case private, se sospetta la presenza illegale di persone al loro interno.
Oltre all’aiuto dato ai singoli rifugiati, è ugualmente importante volgersi verso le cause alla radice ed eliminare i regimi responsabili [di questo]. La seguente parafrasi di un ben noto racconto biblico riguarda proprio questo:
“Recandosi a Gerico per la seconda volta, il Samaritano trovò un altro viaggiatore ferito. Nel suo terzo, quarto e quinto viaggio, egli incrociò ancora altre vittime giacenti sulla strada. Percorse la stradacento volte e c’erano cento sventurati, poi mille e ancor più, proprio nello stesso punto. È quanto stava considerando durante il suo viaggio numero 2333. Era così assorto nei propri pensieri che per poco non oltrepassava l’ultima vittima. Sospirò, prese la benda conservata nella sua borsa e si occupò come d’abitudine della vittima numero 2333.
Con mossa ben allenata, egli montò la vittima insanguinata sulla groppa della sua bestia; ed ecco, guardate!, l’asino si avviò da sé verso la locanda. Seguendo il ben noto percorso, l’asino e la vittima giunsero alla locanda. Al tempo stesso, il Samaritano si stava dirigendo verso il deserto per trovare il covo dei briganti; perché, incrociando la vittima numero 2333, aveva improvvisamente capito che avrebbe potuto essere un Samaritano molto migliore, se si fosse occupato anche dei colpevoli invece di fasciare semplicemente le ferite”.