La città – luogo di estraniamento da Dio e dalla fede?
Innanzitutto devo ammettere che I miei pensieri erano stati preparati con un titolo diverso: “I credenti e le città” - ma anche il nuovo titolo è molto bello ed interessante, e, fortunatamente, vi è un legame tra quanto avevo preparato ed il nuovo titolo....
Fra un mese esatto noi ebrei inizieremo la festa delle Capanne. Per una settimana, lasceremo le nostre case ed i nostri appartamenti confortevoli per prendere I pasti in capanne fatte di fogliame, all'aria aperta, e, tempo promettendo, vi dormiremo pure. La festività è pensata per darci una sensazione di vicinanza a Dio essendo particolarmente vicini alla natura. Le capanne, decorate con fogliame, frasche e frutta, forniscono una cornice naturale, all'aria aperta. Per così dire si è esposti alla pioggia, al freddo ed alla misericordia di Dio.
La festa delle capanne conclude la serie delle tre festività del pellegrinaggio, le quali hanno tutte un carattere agricolo – si va dalla mietitura al raccolto. In queste festività vi sono anche preghiere per la pioggia e per un inverno piovoso, anche se noi abitanti delle città non apprezziamo particolarmente la pioggia. Sembra quindi quasi paradossale dovere pregare per la pioggia nella sinagoga mentre speriamo di tornare a casa senza bagnarci – soprattutto a Colonia, dove vi è persino più pioggia che a Londra. Ciò avviene perché noi cittadini non ci rendiamo neanche conto delle necessità dell'agricoltura. Per noi, la frutta cresce nei supermercati, la verdura viene dal frigorifero. Sappiamo a malapena cosa significhi per i contadini e per la gente di campagna essere esposti alla natura ed alle sue forze.
Ciò ci ricorda della storia di due amici che avevano fatto naufragio e stavano galleggiando su una piccola barca nel mezzo delle acque profonde dell'oceano. Il primo comincia a pregare: “Dio caro, se ci salvi da questa situazione, darò il quinto delle mie proprietà in beneficienza”. Passano le ore e non succede niente, così egli ricomincia: “Dio caro, se ci salvi donerò un terzo del mio patrimonio!” Di nuovo passano le ore e non succede nulla, così egli continua: “Dio caro, se ci salvi donerò ...” In quel momento venne interrotto dal suo amico: “Smettila subito con le offerte! Vedo la terra all'orizzonte...”
Nella campagna a volte ci sentiamo persi, in balia delle forze della natura e di Dio. Le città, tuttavia gli vanno contro e, collettivamente, gli resistono. Ciò comincia con delle case solide che – tutto l'anno – sono asciutte e moderatamente calde, ma non troppo, e, naturalmente, sono prive di vento. Continua per le strade, dove la notte diventa giorno, ed il buio è neutralizzato attraverso la luce elettrica. Perciò abbiamo bisogno di chiederci: riusciamo in effetti ad avere la percezione di Dio? Si può dire ancora che Egli e la fede in Lui hanno ancora un significato ed un impatto diretti su di noi, o dobbiamo prima uscire fuori in capanne fatte di frasche per sperimentare la vicinanza di Dio attraverso la vicinanza con la natura?
L'inizio della città – l'inizio della coesistenza umana
Tuttavia, analizzando le origini delle città, vorrei spiegare due ragioni per cui l città sono un posto dove le vie verso di Dio possono essere trovate e, ed è effettivamente attraverso la vita nelle città che queste vie verso Dio sono state insegnate la prima volta. La Torah, i cinque libri di Mosè, racconta di come fu costruita la prima città. Sorprendentemente, ciò avvenne già in un epoca in cui vi erano a malapena esseri umani che vivessero sulla terra. Di fatto, il primo costruttore di città fu Qayin/Caino, il figlio dei primi esseri umani, Adamo e Chavah/Eva. Si dice di lui nel primo libro di Mosè, cap. 4 v. 17, che egli fu un costruttore di città e che costruì una città per suo figlio Enoch/Chanokh. Possiamo presumere che non vi fossero né abbastanza persone, né una vera necessità di costruire una città, in quanto la Torah non parla ancora dell'esistenza di altre persone oltre ad Adamo, Eva e Caino, sua moglie e suo figlio. Quindi, perché Caino costruì una città in queste circostanze?
Caino non è particolarmente famoso per aver costruito una città, ma piuttosto per aver ucciso suo fratello Hevel/Abele. La Torah non da le ragioni esatte del perché egli fece questo, ma i nostri saggi integrano questa informazione con gli accenni che riescono a leggere tra le righe del testo scritto. Il primo omicidio e fratricidio della storia, essi dicono, ebbe luogo sullo sfondo della competizione tra due fratelli. Questa competizione ebbe già luogo nelle loro offerte a Dio. Delle due offerte, solo quella di Hevel venne accettata, perché era la più bella, ma questa competizione continuò in quanto sorse un conflitto di interessi tra i due quando i due fratelli divisero il mondo tra di loro, e tale conflitto, alla fine, portò all'omicidio. Vi è una famosa maledizione ebraica che descrive questo problema caratteristico tra gli esseri umani. Si dice a colui che si vuole maledire: “Che tu possa diventare ricco! Ma l'unico nella tua famiglia ...”
Caino venne rimproverato e punito da Dio. Dopo aver inizialmente negato, dovette riconoscere che aveva fatto un errore terribile, aveva perso il suo fratello mediante l'operato delle proprie mani. Secondo i nostri saggi, Caino si pentì della sua azione, fece penitenza e si convertì. Nella fede ebraica, convertirsi significa desistere dai propri errori passati e compiere attivamente una svolta ad U, per comportarsi diversamente. Ciò assume un significato particolare in questo mese del calendario ebraico, il mese di Elul in cui, nei giorni che precedono il Capodanno Ebraico, mettiamo particolare impegno a cambiare le nostre vie e pentirci. Per Caino convertirsi significò anche giungere alla consapevolezza che la gente dovesse essere in grado di vivere l'una con l'altra senza dover vedere l'altro come concorrente. Al contrario, devono riconoscere che gli altri sono arricchimento, aiuto e completamento, e dovrebbero quindi apprezzare gli uni gli altri. Ciò di cui vi è necessità per una coesistenza pacifica in una città non è solo la tolleranza ma anche l'apprezzamento dell'altro, e questo apprezzamento è il più grande vantaggio che è possibile ottenere dalla coesistenza.
Questi valori portano ad avere un profonda comprensione di Dio. La Mishnah, l’insegnamento orale, nel trattato Sanhedrin (4, 5) insegna che Dio ha appositamente creato l’uomo partendo da una persona per farli diventare esseri profondamente diversi l’uno dall’altro. Ciò ci permette di concludere che veramente Dio è grande. Un insegnante chiese un giorno ad una classe di religione quale fosse il compito del genere umano dopo la creazione del mondo. La risposta del piccolo Moritz fu: “farvi pubblicità!” Ma, di fatto, Dio ha creato il mondo non solo perché lui è l’unico capace di farlo - mica Dio vuole farsi vanto della creazione ? - ma innanzitutto e prima di tutto perché caratteristica della grandezza di Dio è permettere ad altri esseri di esistere nel Suo mondo. È soltanto dalla diversità delle specie, dal numero incredibile di creature del mondo, piante, animali ed esseri umani, che possiamo iniziare a intravedere realmente la bellezza del mondo. Nonostante Dio sia uno ed unico, egli lascia spazio alla diversità! L’univocità d-vina del mondo consiste nella sua armonia e complementarietà, proprio come la bellezza dell’arcobaleno – il simbolo della Comunità di Sant’Egidio – è nella varietà dei colori che si completano a vicenda.
Insieme – verso dove? La costruzione della torre di Babele
“Insieme siamo forti” potrebbe perciò essere il motto della città. Ma in ciò, vi è anche il pericolo di voler scansare Dio e pensare di poterlo scansare. Questo può essere visto nel secondo passaggio della Torah che parla di una città – la costruzione della torre di Babele. Di fatto, quando l’intera umanità era formata da una sola unità, decisero di approfittarsi di questa unità e del progresso tecnico (poter fare mattoni con l’argilla) per costruire una città, e, nel suo mezzo, una torre che raggiungesse il cielo – “per farsi un nome”. Non si può capire con chiarezza da questo racconto perché a Dio questo progetto non piacque e perché, di conseguenza, considerò giusto disperdere l’umanità. Tuttavia l’approccio precedentemente menzionato ci da un indizio: a causa del progresso tecnologico e di quanto realizzato in comune, l’umanità si sentì così forte, autosufficiente ed indipendente da potersi ribellare contro Dio e negare la sua onnipotenza. Volevano farsi un nome e non portare più, ma rigettare il nome di Dio.
Guardate come si ripete la storia! Di fatti, oggi, nell’epoca delle scoperte scientifiche e del progresso, viviamo nello spirito dell’onnipotenza quasi illimitata. Guardate quanto sia facile negare l’esistenza di Dio, dato che non dipendiamo più da Lui né per capire il mondo né per dominarlo. Gli eponimi di questa indipendenza possono essere trovati nella città, proprio come allora, quando venne costruita la torre di Babele.
La Torah riconosce quest’atteggiamento, ma, sorprendentemente, l’antidoto ad esso non è quello di prendere distanza da questo processo e svilupparsi a ritroso. Se vogliamo essere vicini a Dio, non ci è chiesto e non ci è necessario rinunciare alla civilizzazione e vivere una vita allo stato primitivo e naturale, al contrario, ciò che ci manca è soltanto la comprensione fondamentale di una prospettiva d-vina nel progresso. In tal senso la Torah ci diffida dal non soccombere alla superbia, dicendo “Guàrdati dunque dal dire nel tuo cuore: "La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze"” (Dt. 8, 17-18). Piuttosto, l’uomo deve dire: “Ricòrdati invece del Signore, tuo Dio, perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze”. Ciò non significa che l’uomo debba negare il fatto che le sue mani abbiano creato e realizzato qualcosa, ma dovrebbe sempre ricordarsi del fatto che è da Dio che ha ricevuto le abilità, le possibilità ed i mezzi. È solo in questo modo che l’uomo è all’altezza del compito che Dio gli ha dato nel mondo, e cioè quello di abitarlo e di svilupparlo. Per dirla con le parole del Profeta Isaia:
“Non l'ha creata vuota,
ma l'ha plasmata perché fosse abitata” (Is 45, 18).
La città luogo della fede - Gerusalemme
Secondo l’ebraismo, l’archetipo della rivelazione di Dio può essere trovato in una città, Gerusalemme. È in essa che troviamo le qualità precedentemente menzionate. Da una parte, i diversi popoli e le culture diverse qui trovano il loro raccordo, come descritto dal salmista (ps. 122): “come città unita e compatta. È là che salgono le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge d'Israele, per lodare il nome del Signore.”. D’altra parte, troviamo una forza che ha direttamente Dio come origine (125): “I monti circondano Gerusalemme: il Signore circonda il suo popolo”. La città è circondata da mura possenti, ma essa tuttavia continua a dipendere dalla misericordia di Dio, come si comprende bene dal brano seguente (127): “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella”. Da tutto ciò capiamo che le città sono fatte per portarci più vicini a Dio, ma sta ai loro abitanti riconoscere ciò. Avendo compreso ciò, e avendo trascorso sette giorni in capanne di rami e frasche, torneremo nelle nostre case, nel mezzo della città.