30 Septiembre 2013 09:00 | Iglesia de San Calixto
Non fatevi rubare la speranza:i cristiani nel mondo contemporaneo
Sperare in un tempo di cambiamento debole
Nel mondo contemporaneo la speranza sta diventando un bene sempre più raro e prezioso. Il futuro, ieri tanto agognato perché luogo di realizzazione di progetti personali e collettivi, ha perso gran parte della sua attrattiva: è più temuto che desiderato, e per molti è diventato un vero e proprio buco nero. Lo stesso concetto di progresso, che ha costituito la molla motivazionale di intere generazioni, sembra incagliarsi a fronte di una società, almeno quella occidentale, dov’è in atto un cambiamento debole, comunque sotto le aspettative, e soprattutto nei confronti del quale i cittadini hanno la percezione di non poter incidere in modo determinante. Di fatto «l’indebolimento del cambiamento è una delle espressioni più allarmanti di quella che viene chiamata l’assenza del futuro» . A questo si aggiunga la pesantezza e pervasività di una crisi economica che sembra interminabile e ha decisamente scalzato l’idea di una crescita continua. La società occidentale si è così bruscamente risvegliata dal sogno di un benessere crescente e irreversibile e una delle paure più significative legate alla globalizzazione riguarda proprio l’accrescersi delle disuguaglianze , per cui l’impoverimento diventa per molti una sorta di spettro. «La paura di cadere dalla parte degli esclusi – scrive Marc Augé – è molto diffusa e alimenta l’angoscia nei confronti del futuro immediato» .
Purtroppo non sono solo gli indici economici a segnare meno, poiché il travaglio della ricerca di nuove soluzioni di convivenza è sempre più intenso. Il viaggio lampo, in tutti i sensi, del pontefice all’isola di Lampedusa – l’8 luglio scorso –, ha rimesso a tema, con prepotenza, la questione dell’accoglienza degli immigrati, che diventa diritto inalienabile quando si tratta di profughi o richiedenti asilo, e questo nel rispetto delle vigenti leggi comunitarie. Dopo aver richiamato due domande bibliche incalzanti che Dio stesso pone all’uomo: «Adamo, dove sei?» e «Caino, dov’è tuo fratello?», il papa, nell’omelia della Santa Messa celebrata sull’isola, commenta: «Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito». Qui, con tutta evidenza, si vede come la penuria di speranza diventi moltiplicatore di un atteggiamento di disattenzione e disaffezione nei confronti della collettività, ma anche e soprattutto dell’altro ritenuto estraneo quando non ostile. Per cui ognuno coltiva la folle illusione di custodire il suo bene senza prendersi cura del bene dell’altro. Mentre la speranza non è mai una virtù solitaria, escludente, elitaria, per il fatto che – sfondando in un punto verso il futuro – apre al contempo al futuro di tutti e per tutti.
I cristiani e la speranza condivisa
La speranza cristiana non è un sentimento generico, ottimismo di maniera, e quindi non vive della logica del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno; essa necessita di uomini e donne che accolgono come punto fermo dell’esistenza l’alleanza di Dio con gli uomini e ne fanno il perno di ogni azione , fino a diventare dei sognatori. Ricordando che la mistica cristiana è mistica degli occhi aperti – secondo la bella espressione del teologo tedesco Johann Baptist Metz – e non ha nulla a che fare con il mondo rarefatto di una spiritualità disincarnata e devitalizzata, bisogna riconoscere che nella Chiesa non è facile sognare, e quando qualcuno ci prova rischia di essere indicato a dito e messo in angolo. La storia ha antecedenti lontani, uno dei quali è certamente la vicenda biblica di Giuseppe, figlio di Giacobbe: «Ecco che arriva il sognatore! – si dicono l’un l’altro i suoi fratelli –. Su, uccidiamolo e gettiamolo in una cisterna» (Gen 37,19-20). E così la profezia si allontana e ripara in terra d’Egitto, la fraternità viene violata e la storia della salvezza prende vie tortuose. Insomma, la speranza, che si lega spontaneamente alla profezia, è anche sempre una virtù che esige coraggio, una parola che a buon diritto campeggia nel titolo di questo Incontro internazionale. La speranza non è tale o non è di spessore quando non c’è anche un prezzo da pagare.
Ma veniamo ora allo specifico, a ciò che è proprio della speranza cristiana: questa non è solo speranza nell’aldilà, in un mondo oltre e altro, nel senso che non ha come obiettivo la salvezza dal mondo bensì del mondo, nella sua interezza. E questo cambia le cose. Innanzitutto «la speranza – come scrive Benedetto XVI nella Spe salvi – attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future». La speranza, quindi, dà fondamento all’agire e lo nutre costantemente con anticipi della realtà attesa. Inoltre, va tenuto in conto che l’anelito alla salvezza e la trasfigurazione che ne consegue riguarda tutto il creato, l’uomo unitamente al suo ambiente, la comunità umana nel suo insieme. Abbiamo purtroppo dimenticato le dimensioni collettive della salvezza e conseguentemente della speranza, riducendo quest’ultima a una piccola scatola di desideri e proiezioni personali. E questo ha prodotto un cristianesimo che fatica a intendersi e a esprimersi comunitariamente, come compagnia di fratelli e sorelle impegnati nella comune costruzione del Regno, il progetto buono di Dio per l’umanità. «La speranza con cui Gesù ha contaminato il mondo è talmente grande e immensa che il singolo individuo non può sperare più da solo e guardando esclusivamente a se stesso. Le nuove figure di comunità di oggi e di domani si devono orientare con gli occhi di questa speranza» . È innanzitutto la Chiesa, la comunità cristiana il soggetto primo e pieno della speranza, il soggetto che custodisce le radici cristologiche fondanti la speranza e ne garantisce l’autenticità dei frutti. Ma non per questo si tratta di una speranza che si limita a far fermentare ciò che si trova dentro i confini visibili della Chiesa, poiché la speranza cristiana è tale per il fatto di essere a disposizione di tutti. Si può dire, infatti, che i cristiani hanno nei confronti degli uomini e delle donne del loro tempo la responsabilità della speranza: «Questa responsabilità – scrive Enzo Bianchi – oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è questa in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret? Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita» .
Ladri di speranza
«Per favore, non lasciatevi rubare la speranza» è ormai un refrain negli interventi pubblici di papa Francesco, a partire dal 24 marzo, domenica delle Palme, giorno nel quale, in Piazza San Pietro, ha incontrato i giovani per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Qui, come in altre occasioni, egli ha legato la speranza alla gioia («Non siate mai uomini e donne tristi»), alla lotta contro il maligno che cerca di sedurre («Nei momenti difficili viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo!»), alla testimonianza da portare al mondo («I giovani devono dire al mondo: è buono seguire Gesù; è buono andare con Gesù; è buono il messaggio di Gesù; è buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù!»).
Per quanto riguarda i «ladri» di speranza, papa Francesco non ha dubbi nell’indicare innanzitutto l’attitudine a non volersi sporcare le mani, restando in panchina invece di fare la propria parte: «Cari giovani, per favore, non “guardate dal balcone” la vita, mettetevi in essa – ha detto durante la Veglia di preghiera sul lungomare di Copacabana –. Gesù non è rimasto nel balcone, si è immerso, non “guardate dal balcone” la vita, immergetevi in essa come ha fatto Gesù» . In verità, non si tratta di un atteggiamento da ascrivere solo ai giovani, per il fatto che molti adulti oggi vivono, per esplicita scelta, coltivando un totale disinteresse per le sorti comuni, condizione che li porta a infrangere il patto intergenerazionale, nel senso che non intendono prendersi cura di ciò che sarà il mondo futuro.
Accanto al disinteresse, papa Francesco colloca l’irresponsabilità. Se il mondo va a rotoli questo dipende da qualcun altro che non sono io. Innocentizzare se stessi e colpevolizzare gli altri è sempre stata una strategia difensiva efficace, almeno all’apparenza. Ma cambiare le cose è possibile solo cominciando a farlo in prima persona, accettando innanzitutto di cambiare se stessi. «Da dove cominciamo? Una volta hanno chiesto a Madre Teresa di Calcutta che cosa doveva cambiare nella Chiesa, se vogliamo cominciare, da quale parte? Da dove – hanno chiesto a Madre Teresa – bisogna iniziare? Da te e da me! rispose lei» .
Anche l’accumulo di beni e il possesso smisurato di risorse, soprattutto quando è a scapito di altri, svuota la speranza, nel senso che il denaro ne divienefacilmente un surrogato. Nell’Angelus del 4 agosto scorso, sempre papa Francesco ha parlato di «quel veleno del vuoto che si insinua nelle nostre società basate sul profitto e sull’avere, che illudono i giovani con il consumismo. Il Vangelo di questa domenica (cf. Lc 12,13-21) – ha aggiunto – ci richiama proprio l’assurdità di basare la propria felicità sull’avere». Dietro queste parole vi è una dura critica contro la dittatura e il feticismo del denaro, forme di idolatria antievangeliche spesso contigue a corruzione e carrierismo.
La speranza ha dunque bisogno di partecipazione, di responsabilità e di libertà. Non di persone che stanno alla finestra, che passano tutto il tempo a dire che loro non c’entrano, che si lasciano lusingare dal possesso dei beni e finiscono con il lasciarsi usare da ciò che credono di possedere.
Insignificanza e persecuzione
È a tutti noto che il cristianesimo si sta spostando da Nord a Sud, da Ovest a Est, decentrandosi sempre più rispetto all’Europa, vale a dire il luogo geografico che ne ha visto una bi millenaria e capillare inculturazione. Le Chiese Nordamericana e Sudamericana sono da tempo realtà consolidate, ma anche la Chiesa Africana è in forte crescita e altrettanto accade alla Chiesa disseminata nel vastissimo continente Asiatico. Sempre meno il cristianesimo ha un centro e una periferia, ma si presenta come evento di inculturazione in grado di esprimere e sostenere la fede alle diverse latitudini, facendo fruttificare le ricchezze culturali e religiose di ogni popolo. Con una differenza fondamentale tra la Chiesa europea e le nuove Chiese, soprattutto in Africa e in Asia, dove si collocano le frontiere della fede.
Quella europea appare una Chiesa stanca e sfiduciata, in decrescita numerica e non solo, spesso in trincea a combattere una battaglia sterile tra conservatori che cercano di salvare il salvabile replicando il passato e progressisti che fanno di tutto per rincorrere il mondo e convincerlo delle proprie buone intenzioni . Ma la sostanza delle cose che la Chiesa fa e dice interessa di fatto sempre meno persone. Al muscoloso ateismo di un tempo si è sostituito il muro di gomma dell’indifferenza, non solo religiosa, per cui il problema non è lo scontro bensì la depressione. Nessun dialogo è possibile, infatti, con una posizione che rappresenta la liquefazione della domanda su Dio e il disinteresse totale nei confronti della risposta, per cui «l’indifferenza religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità» . Il rischio dell’irrilevanza sociale, dello stemperamento delle proprie convinzioni in base alle regole del politicamente corretto e quindi la deriva dell’insignificanza sono dunque il grande pericolo incombente sul cristianesimo europeo. Un passato troppo glorioso e del tutto non replicabile appesantisce più che liberare energie, rischiando di mettere la museruola alla speranza nella misura in cui non si prendono da esso le dovute distanze. Non perché debba essere cancellato, ma perché il continuo mitizzarlo non apporta miglioramenti al presente. Che deve fiorire dentro nuovi contesti e ormai per uomini e donne del XXI secolo, intercettando le loro speranze.
Se l’insignificanza fa evaporare la speranza o almeno la mette a dura prova, vi è però, nel Sud del mondo e in molti Paesi dell’Asia (soprattutto quelli appartenenti al blocco islamico, dove i cristiani sono in netta minoranza) un cristianesimo perseguitato anche violentemente, fino al punto che il martirio è diventato drammatica normalità.
Ogni anno il bilancio di uccisioni, persecuzioni, stragi, riprende quota e i numeri sono a dir poco impressionanti. Nel 2012 sono stati uccisi per la loro fede 105 mila cristiani, il che significa un morto ogni cinque minuti. Non si tratta di calcoli a spanne, ma ricavati da dati diffusi dal documentatissimo Centro statunitense «David Barret». Anche la geografia del fenomeno è nota, e chiama in causa soprattutto Paesi che lasciano spazio al fondamentalismo islamico come Nigeria, Somalia, Malie Pakistan, oppure Paesi dove persistono regimi totalitari di stampo comunista, primo tra tutti la Corea del Nord.
Il nostro discorso non sarebbe completo se non ricordassimo che i 105 mila di cui abbiamo parlato sopra appartengono a più confessioni cristiane, per cui alcuni tra loro hanno anche realizzato quello che Giovanni Paolo II, nell’anno del Grande Giubileo, ha definito l’«ecumenismo dei martiri», tra i molti il più convincente. C’è da dire infine che se la persecuzione sembra in un primo momento scoraggiare l’esercizio della fede mettendo a dura prova la speranza cristiana, anche quando miete vittime ottiene più spesso l’effetto contrario. Come scriveva Tertulliano, infatti, semen est sanguis christianorum , il sangue donato per Cristo diventa semente per nuovi cristiani, nella straordinaria logica evangelica del seme che quando è sepolto nella terra molto fruttifica.
Chiusa francescana
Alla voce speranza del Dizionario Francescano leggiamo quanto segue: «Francesco fu lo specialista della speranza escatologica e della speranza umana. Della prima perché credette illimitatamente nel Dio di Gesù Cristo e in lui pose tutta la sua fiducia; della seconda, perché seppe fidarsi degli uomini e sperò in loro, negli altri esseri e negli accadimenti quotidiani» . Per Francesco d’Assisi, dunque, la speranza non è la virtù degli ultimi momenti e neppure ha solo un interesse ultramondano, ma è virtù profondamente incarnata che, oltre ad aprire a Dio, conduce a «dare credito alla realtà» (G. Marcel). Il cristiano spera in un Dio che spera nell’uomo e per questo viene continuamente rimandato a replicare questo sguardo fiducioso nei confronti dei fratelli e di tutte le creature. In un tempo in cui la fiducia è latitante, dall’economia alle relazioni interpersonali, questo tratto francescano della speranza come «dare credito» può aiutare a far crescere il mondo nuovo che tutti attendiamo.