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Maurizio Landini

Secretary Generai of the CGIL, ltaly
 biografie
Vi ringrazio per questo invito, perché oltre a dire delle cose, considero anche molto importante ascoltare e cercare anche di capire meglio quello che sta succedendo.
 
Le cose che dirò provengono dal mio impegno nel mondo del lavoro. Ho cominciato a lavorare all’età di 15 anni, come semplice apprendista saldatore e poi da lì mi sono impegnato nel sindacato, nel settore metalmeccanico in particolare, fino ad arrivare ad avere oggi questa responsabilità molto impegnativa. Quindi, il mio impegno civile, sociale e politico è sempre partito dal mondo del lavoro, da come rappresentare al meglio il mondo del lavoro. Ho sempre cercato di guardare non solo a quanto doveva prendere una persona che lavorava, che è un punto importante, ma pensando anche che la cosa fondamentale fosse se le persone attraverso il lavoro avessero la possibilità non solo di realizzarsi come persone, ma anche di poter utilizzare la propria intelligenza per poter discutere, contrattare e anche per poter intervenire sul significato del rapporto di lavoro, quindi anche su che cosa produrre, come produrre e con quale sostenibilità sociale ed ambientale. 
 
Oggi questo tema ha una importanza ancora più grande. In questi 40 anni di esperienza il livello di diseguaglianze dentro il mondo del lavoro e nella società è cresciuto sempre di più. Sono qui per ascoltare, anche per condividere una difficoltà perché. una situazione così difficile, complicata, non l’ho mai vissuta, perché una delle cose che sta succedendo è che i problemi non vengono uno per volta. A lungo avevo pensato che si poteva affrontare un problema per volta, oggi da un certo punto di vista ciò non è più vero perché siamo dentro ad una situazione, ad un processo in cui le cose stanno avvenendo tutte assieme. E questa complessità pone davvero la necessità che più intelligenze, più soggetti, culture, provino assieme ad affrontare la situazione perché credo che nessuno da solo sia in grado di risolvere le contraddizioni di cui oggi qui stiamo discutendo. Questo è un punto da cui partire, con tutti i rischi che questo sta determinando.
 
Vedo una differenza fondamentale da quando ho cominciato io a lavorare: i diritti che io mi ero ritrovato entrando nel mondo del lavoro, non li avevo conquistati io: li avevano conquistati quelli che prima di me avevano lavorato. Il fatto che attraverso il lavoro, all’inizio, per me e per la mia famiglia, lavorare significava non essere povero, significava poter costruirsi una vita. poter pensare che c’era una crescita e che non avevi bisogno di dover competere con qualcuno di fianco a te.
 
Oggi il livello di precarietà che c’è nell’ingresso al lavoro delle nuove generazioni, è un problema che sta mettendo in discussione anche la libertà delle singole persone, perché una persona non più essere libera, se precario. Una persona non può essere libera se, pur lavorando, è povero. Una persona non può essere libera se, come succede adesso molto spesso, i modelli di fare impresa che si sono affermati portano a volte anche a morire sul lavoro. Una persona non è libera oggi se, ad esempio, il diritto alla formazione, il diritto alla conoscenza, il diritto alla sua qualificazione, non diventa un diritto garantito che ti segue tutto l’arco della vita. 
 
Uno degli elementi di diseguaglianze più forte che io oggi vedo dentro al mondo del lavoro è proprio questa diversità tra chi ha le conoscenze, tra chi può avere le conoscenze, e chi non ce le ha. E molto spesso anche la tecnologia, che sta cambiando tutto, determina una polarizzazione senza precedenti tra quei pochi che al limite hanno le conoscenze e le capacità e quei tanti che sono invece messi al servizio di questo processo.
 
Da questo punto di vista, quindi, io penso che il tema delle diseguaglianze, che non sono solo economiche, sono anche sociali, sono anche di genere, perché tra gli uomini e le donne non ci sono le stesse condizioni di lavoro, sono anche generazionali, perché le nuove generazioni stanno pagando un prezzo pesantissimo e sono anche, qui veniva ricordato, tra nativi e migranti.
 
Noi nel nostro paese, in Italia, sappiamo che addirittura su questo problema ci si sono giocate le elezioni politiche. E io penso che ci sono dei momenti in cui dovresti raccontarti la verità. Noi siamo un paese che sta invecchiando, l’Occidente sta invecchiando, mentre qui si dice che il resto del mondo sta crescendo. E, banalmente, se noi vogliamo mantenere o essere parte di un processo nel processo più generale, abbiamo bisogno di integrazione, di migranti e non di conflitti tra le persone. Questo tema penso sia un tema che dev’essere affrontato.
 
Quando dico che il livello di diseguaglianze non è mai stato così alto, guardando alcuni dati dell’Oxfam emerge una cosa molto precisa: il 10% delle persone detiene l’85% della ricchezza.
 
Mi ha colpito che uno studio dell’università della Sorbonne ricordava che nel 1789 il livello di diseguaglianze era più basso, non arrivava all’80%. Quel livello di diseguaglianze portò, tra le altre cose, a una rivoluzione. Oggi siamo a un livello di disuguaglianze ancora più alto e, da un certo punto di vista, se andiamo a vederle, queste diseguaglianze sono anche frutto di un modello sociale ed economico che in questi anni si è affermato, che dal mio punto di vista ha origine a partire dagli anni ‘80 con il neoliberalismo, cioè l’idea che il mercato non doveva più avere vincoli sociali. Se c’era una caratteristica dell’Europa, dal dopo guerra fino alla fine degli anni ’80, uno degli elementi era proprio la mediazione che si era trovata tra il capitale e il lavoro.
 
Del resto, lo stato sociale era proprio un elemento di mediazione sociale, che si era trovato per affermare anche una redistribuzione della ricchezza che avesse determinate caratteristiche. Questa mediazione è saltata, non c’è più, è stata messa in discussione e si è affermata una centralità del mercato ed in particolare della finanza che non ha precedenti, nel senso che questo ha determinato una riduzione dei salari, dappertutto. Se poi guardiamo gli ultimi dati del dopo Covid, siamo davanti ad un fenomeno, nel ’21, ’22, ’23, che non ha precedenti: il livello di profitti che si è determinato nel mondo non è mai stato così alto e il livello dei salari, di difesa del potere di acquisto, non è mai stato così basso. Infatti, è stato messo in discussione, a proposito di redistribuzione della ricchezza, il sistema fiscale. A questo proposito continuo a pensare che c’è un punto fondamentale per redistribuire la ricchezza: è il principio della progressività, e cioè che chi più ha, più deve pagare, più deve contribuire. Questo banale principio oggi è stato radicalmente messo in discussione. Ci sono dei dati che fano rabbrividire. 
 
Parliamo di sanità: perché una donna che lavora nella sanità possa prendere quello che prende in un anno l’amministratore delegato tra le prime 100 grandi aziende, ci vogliono 1200 anni di lavoro. Lo dico banalmente, a me sembrano follie. Lo dico in modo molto chiaro. Scusate se la dico così. A volte, quando uno parla di cifre che io sinceramente non ho mai visto, scusate se può apparire banale quello che dico adesso, ma lo delle domande me le faccio: cosa se ne fa uno di tutti quei soldi, di tutte quelle quantità! A cosa gli serve?
 
Può apparire banale come ragionamento, ma guardate che è una domanda di fondo. Perché, se siamo di fronte ad una concentrazione della ricchezza che non ha precedenti, e contemporaneamente riflettiamo sul livello di inquinamento, non solo in Africa ma nel mondo – è il tema dell’ultimo intervento prima di me – frutto di un modello di produzione con cui noi viviamo e abbiamo costruito i prodotti in questi anni, ebbene, tutto questo sta mettendo a rischio la presenza della vita nel pianeta. Non è la follia di qualcuno, è la realtà con cui siamo chiamati a fare i conti.
 
Questo elemento significa porsi seriamente il problema di cambiare modello di sviluppo. È la cosa più difficile in assoluto, lo dico anche da sindacalista perché, se io devo rappresentare un lavoratore che lavora in una azienda che al limite fa un prodotto che inquina e che è vecchio, ma non gli dai l’alternativa, non gli dici quale altro lavoro lui può fare, quel lavoratore lì difende quel posto finché può, perché senza lavoro non mangerà.
 
Quindi non sto dicendo che questo è semplice, che è facile: no, è una discussione difficile, ma da un certo punto di vista è una discussione non più evitabile. Assumere questo elemento vuol dire allora porsi anche il problema di come cambiare regole economiche, come introdurre vincoli sociali.
 
Sono in una fase, consentitemi la battuta, moderata, cioè non sto pensando al superamento del capitalismo. Sto pensando se almeno si sancisse una pari dignità tra la persona e il mercato: questo elemento contiene un elemento di fondo.
 
Perché dico questo? Perché quello che è avvenuto è la svalorizzazione del lavoro. Penso che è chi lavora che produce ricchezza, mentre in questi anni si è affermata l’’idea che è la finanza che produce la ricchezza. Invece, dal mio punto di vista, è esattamente l’opposto, cioè in alcuni casi la finanza distrugge anche la ricchezza che quelli che lavorano producano. E quando parlo di lavoro non intendo solo il lavoratore e la lavoratrice,  ma penso anche a chi seriamente vuole fare l’imprenditore, cioè che sente su di sé tutta la responsabilità sociale nell’avere una funzione nel fare impresa. Perché anche questo è l’altro elemento che abbiamo di fronte.
 
Uno dei problemi che abbiamo è: cosa facciamo per affrontare questa situazione? E si pone un problema che è sotto gli occhi di tutti e che tocca tutti perché riguarda anche la riduzione o la crisi della democrazia. Questi fenomeni infatti stanno determinando una crisi della democrazia.
 
Se guardiamo l’Italia, dove metà dei cittadini non va più a votare, vuol dire che siamo di fronte ad una situazione in cui metà dei cittadini non si sente più rappresentata da nessuno. E questo elemento di per sé spinge all’individualismo, alla competizione tra persone, e al limite alla richiesta di qualcuno che comanda, cioè di una domanda che, di fronte ai tanti problemi che non risolvi, ci deve essere qualcuno forte che li risolve.
 
Io penso che questa deriva, perché questa rischia di essere una deriva che mette in discussione la democrazia, la coesione sociale e la convivenza, ha bisogno di uno Stato. E consentitemi anche qui di esser chiaro: io penso che la democrazia la si difende praticandola, io non vedo un’altra strada. E praticare la democrazia vuol dire mettere le persone nelle condizioni di poter essere soggetti protagonisti dei cambiamenti che oggi sono in atto. E questo non vuole dire solo una discussione centrale, vuol dire anche la costruzione sul territorio di azioni.
 
Di fronte alle persone -  lo dico per la percezione che ho girando i luoghi di lavoro, le fabbriche -  molto spesso vedi la paura, la paura di perdere il posto di lavoro, la paura di non vedere cosa succede a tuo figlio, la preoccupazione. E molto spesso rischi che le persone si sentano da sole ad affrontare questi problemi. Allora, da un certo punto di vista, oggi si tratta di essere in grado di agire sostanzialmente in questo modo. 
 
Penso che ci sia un tema di fondo: si tratta di rimettere al centro la libertà di esistere che significa innanzitutto rimettere al centro il lavoro e la persona che lavora, che deve venire prima del profitto e prima del mercato. E insisto su questo: una persona non può essere precaria, come invece oggi è, non può pensare che deve competere con un altro che come lui per vivere ha bisogno di lavorare. La crisi che sta vivendo anche l’organizzazione sindacale nasce proprio da questo, perché non solo le persone nel mondo sono aumentate, ma se ci pensate - al contrario di chi addirittura negli anni ’80, ’90 ha teorizzato, la fine del lavoro, - il numero di persone che per vivere ha bisogno di lavorare, nel mondo non è mai stato tanto grande come adesso. Ma il punto vero è che le persone che lavorano non sono mai state tanto divise, frantumate, contrapposte, messe in competizione tra di loro.
 
Quindi, rimettere oggi al centro il lavoro e la persona, vuol dire rimettere al centro della discussione gli elementi di fondo, le scelte di fondo che devi fare. Sapendo che c’è un problema, certo, di salario, di redistribuzione di ricchezza, ma c’è anche un tema che si chiama:  cosa produciamo, perché lo produciamo e con quale sostenibilità.
 
E qui c’è un punto di svolta: queste scelte di cambiamento di modello, non possono essere affidate semplicemente al mercato o alle imprese o semplicemente alle multinazionali. Non so se è chiaro come concetto: c’è bisogno  che la politica e gli Stati si riapproprino di una loro importante funzione, perché la quantità di investimenti che oggi è necessario mettere in campo per affrontare questi processi, il mercato da solo non è in grado di affrontarli.
 
E allora, proprio perché quelle risorse sono risorse pubbliche, frutto del lavoro, delle tasse, dell’impegno di ognuno di noi, io credo che qui ci sia un elemento di cambiamento. E io questo lo dico non solo perché sono qui in questa giornata importante e in questo confronto, ma perché il tema centrale delle vostre giornate - Immaginare la pace - non è solo un richiamo alla buona volontà. Lo dico perché è indubbio che, se voglio affermare la libertà e i diritti del lavoro, ho bisogno della pace e di cancellare la guerra perché nei fatti, purtroppo, quello che si è determinato è che non solo la guerra è tornata, ma è lo strumento che rischia di essere quello che si accompagna nella riorganizzazione del mondo. Di questo oggi si sta discutendo. Io penso che mai come adesso la lotta per la pace e la lotta per il lavoro e la lotta per un nuovo modello sociale non son cose tra loro separate, debbono essere la stessa cosa, la stessa battaglia.
 
In questi giorni anche in Europa sono stati presentati tanti studi, tanti progetti. Tutti dicono che abbiamo bisogno di centinaia di migliaia di miliardi di investimenti, lo dico sapendo che anche in casa mia si possa aprire qualche discussione. Io penso che noi non possiamo accettare l’aumento che oggi è in atto in tutto il mondo degli investimenti in armi, degli investimenti militari, degli investimenti nucleari. Perché questo disegna un altro mondo.
 
Io capisco che c’è una domanda di sicurezza, da qualsiasi parte la si guardi, ma guardate che questa domanda di sicurezza non ha bisogno di armi, ma ha bisogno di lavoro di qualità. Ha bisogno di sanità pubblica, ha bisogno di scuole pubbliche, ha bisogno, cioè, di rimettere i cittadini nella condizione di poter vivere con dignità, ed essere soggetti che partecipano alla costruzione di un nuovo modello sociale.
 
Ecco, io credo sia questo il contributo e la discussione che dobbiamo fare. Penso, per quello che mi riguarda, sia anche l’impegno che una organizzazione sindacale come la nostra vuole mettere in campo.
 
E davvero chiudo. Mi rendo sempre più conto che non solo una organizzazione sindacale, pur grande come la nostra, con più di 5milioni di iscritti, da sola non va da nessuna parte. E mai come adesso c’è anche un tema, che si chiama sindacato mondiale, ma, lo dico, per me si chiama anche costruzione di reti sociali su base territoriale, nei luoghi di lavoro, ma anche sul territorio. Cioè, di ricostruzione di una cultura del lavoro e di una cultura della solidarietà, cioè dell’affrontare assieme questi problemi. Grazie.