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Mario Giro

Gemeinschaft Sant’Egidio
 biografie
Le immagini che abbiamo recentemente visto sull’Afghanistan sono eloquenti: un dramma per le persone accalcate all’aeroporto, una sconfitta per chi andava via, un brutto futuro per tutti gli afghani. Questo è accaduto dopo 20 anni di guerra che non ha dato nessun risultato malgrado le centinaia di migliaia di vittime e i tanti denari spesi. Un paese poverissimo che lo è rimasto; un’impotenza nel costruire il convivere che non è cambiata; una contrapposizione tra Stati che è addirittura cresciuta. Inizio da qui perché per spiegare quanto sia possibile e necessaria la pace, occorre guardare la guerra in faccia. In Afghanistan 20 anni di guerra non sono serviti a niente: siamo al punto di partenza e questo deve provocarci ad una seria riflessione sullo strumento guerra. La guerra non risolve niente. Anche perché –è una constatazione evidente- nessuno più è in grado di vincere. I terroristi lo sanno bene: loro non puntano a vincere ma ad impedire la completa vittoria dell’avversario. In questi anni troppe guerre sono state fatte senza risultati: lasciar dietro di sé una scia di morte (e di rancori) senza nemmeno riuscire a vincere è una totale assurdità. 
 
Di conseguenza in maniera oggettiva possiamo constatare che la guerra è uno strumento ormai obsoleto, vecchio, inutile e dannoso. Non siamo ingenui: sappiamo che ci sono tanti dissidi politici da risolvere. La pace infatti non è un improvviso bagno irenico smielato che risolve in maniera buonista con magia tutte le discordie. Per risolvere tanti problemi ci vuole reciproca conoscenza, dialogo, in certi casi paziente negoziato e mediazioni, compromessi politici e tanto altro. Quello che però possiamo constatare con assoluta certezza è che la guerra non è lo strumento adatto. Ciò non cambia nemmeno se la si maschera sotto altri nomi: intervento umanitario, responsabilità di proteggere ecc.: la guerra, lo strumento militare, peggiora sempre la situazione che vorrebbe correggere. Con le armi il mondo diventa peggiore. Oggi lo verifichiamo purtroppo in Siria, in Iraq, in Yemen, in Libia, in Ucraina, in Afghanistan, in Somalia e altrove. Quando il conflitto attanaglia un paese, non lo lascia più andare. Molti paesi restano distrutti e nessuno vuole o può ricostruirli. Sono paesi dove la gente è fuggita, la vita è diventata impossibile o è addirittura cambiata la composizione etnica. La guerra non raggiunge gli obiettivi che si è data anche quando viene fatta in nome della pace o dei diritti umani. Questo è il punto: la guerra non serve nemmeno ad affermare la giustizia. Oltre le ragioni etiche e politiche per un suo ripudio, essenziali per noi, c’è da constatare un dato fattuale: le guerre sono inutili o peggiorano la situazione. E’ venuta l'ora di prendere consapevolezza di tale dato e tornare all’intuizione del “never again” del secondo dopoguerra, che al contrario ha prodotto molti frutti. La pace diventa possibile a partire da tale consapevolezza. 
 
Perché allora la guerra è tornata ad essere popolare e si presenta senza pudore ? Ci sono due ragioni principali. 
-  La prima è la cultura della globalizzazione: forte competitività che in politica diviene contrapposizione violenta. E’ una cultura che afferma che per risolvere i problemi occorre affrontarsi e combattere contro gli altri. L’economia globalizzata ha reso accettabile una violenta cultura della competizione che ha travolto la politica e l’ha trasformata e polarizzata. 
-  La seconda causa è la manipolazione della paura. Pensate agli attentati dell’11 settembre 2001 e alle guerre che ne sono seguite strumentalizzando la paura della gente. Terrorismo e guerra preventiva hanno prodotto antipatia sociale e scavato fossati con la predicazione dell’odio. 
 
Ciò spiega le difficoltà attuali delle costruzioni collettive come l’UE o l’UA ma anche l’ONU. Nelle relazioni internazionali troppi dirigenti politici si sono arresi a tutto questo: troppa rassegnazione, poche iniziative di pacificazione e crescente tentazione di risolvere i contenziosi con la forza. 
 
Questo vale anche nella vita delle società in cui tutto si polarizza in maniera competitiva producendo una guerra interna: quella contro i poveri, gli ultimi o i diversi. Non può esserci pace per una società che li esclude. I poveri intuiscono meglio di tutti il valore della pace: per loro -che non possono difendersi- la pace è vitale. L’esperienza di Sant’Egidio è aver appreso la centralità della pace dai poveri. In una società dominata dalla competizione, i poveri soffrono di più e chiedono di cambiare (il grido silenzioso che gli altri uomini non ascoltano di cui parlava M ieri). Occorre andare oltre lo spirito del nostro tempo, fatto di individualismo e mercatismo, mentalità istintive e quindi molto seduttive. Secondo tale mentalità la felicità è l’estensione del proprio io (proprietario e talvolta predatore) dove l’egoismo alla fine spegne tutto. L’opposto della pace è l’egoismo: una società che accetta la guerra in realtà l’ha già combattuta dentro di sé. Il no al povero prepara il no al fratello, al vicino, allo straniero. Una società indurita ha già inconsapevolmente perso la pace. La nostra convinzione è che la guerra sia un’avventura senza ritorno che, anche quando sembra inevitabile o giustificabile, deturpa il volto e l’anima di un popolo, talvolta per sempre. 
 
A Sant’Egidio guardiamo da vicino numerose realtà di conflitto con tutta la loro drammaticità, chiedendoci sempre cosa fare. Dalla mediazione in Mozambico del 1992 -conclusa con l’accordo di pace mediato da Andrea Riccardi e Matteo Zuppi e che è divenuto un modello internazionale- Sant’Egidio si adopera a cercare vie di pace in molti paesi, specie in Africa ma non solo. La nostra unica risorsa è l’interesse per l’orizzonte del mondo, per le crisi dimenticate o per situazioni ritenute impossibili, come anche il dialogo e la fedeltà alle situazioni. In questi anni abbiamo coltivato la speranza realista e tenace che la pace è possibile. Bisogna trovare le vie per realizzarla con pazienza e ascoltando la volontà di pace di popoli ostaggi di una cultura di guerra. Fare pace non è ripetere sempre lo stesso schema: bisogna essere creativi e questo non si ottiene solo con la professionalità ma soprattutto con la simpatia. La pace per Sant’Egidio inizia con la simpatia e la sintonia con un intero popolo. Nel nostro approccio si tratta di un’adozione amicale, anche quando si tratta di andare controcorrente con lo spirito del tempo. 
 
Per questo è importante costruire ponti di dialogo: ciò ci libera dalla paura e dall’incertezza fomentate dalla cultura della contrapposizione che provoca diseguaglianze, apartheid razziste, patologia della memoria, rancore sociale ecc. La pace è possibile mediante lo sforzo del convivere che inizia vicino a sé e porta lontano. E’ un’ideale per cui vale la pena vivere. In questo senso la Comunità di Sant’Egidio ha sempre privilegiato il dialogo come metodo per un nuovo umanesimo, una nuova fratellanza umana. Pensiamo che le religioni possono vivere la globalizzazione come un’avventura dello spirito che contrasti la paura e costruisca un nuovo grande movimento di pace e dialogo mondiale. Questo è lo spirito di Assisi che dissocia le religioni dalla guerra.