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Stefano Allievi

Sociologue, Université de Padoue, Italie
 biographie

 L’Europa rischia di crollare sotto il peso delle migrazioni: o meglio, sotto il peso delle sue contraddizioni interne a proposito delle migrazioni. 

 
Un’area geopolitica di 512 milioni di abitanti, tale è la popolazione dell’Unione Europea, sta perdendo la sua anima, ma anche la sua razionalità, intorno alla questione di come gestire un flusso annuo attuale di 2-300mila persone (anche se fossero 500mila o 1 milione, come in alcuni anni è stato, non cambierebbe nulla, per un’area che perde forza lavoro al ritmo di 3 milioni l’anno), e come creare politiche che vadano verso la soluzione del problema alla fonte.
 
E’ allora il caso di reagire, affermando pochi ma decisivi concetti, che possono diventare da subito altrettante proposte praticabili e operative. Senza fare appello – qui – a orientamenti valoriali, che pure l’Europa dovrebbe avere, a istanze etiche, su cui ci sarebbe motivo di interrogarsi, a motivazioni religiose, che pure coinvolgono molti. E nemmeno alle emozioni che, in un senso o nell’altro, ci attraversano, pensando a quanto accade prima, durante e dopo le migrazioni. Ci limitiamo, volutamente, alla gestione, alla razionalità politica, economica e sociale. Sapendo che non esaurisce l’orizzonte delle valutazioni da fare in proposito. Consapevoli, peraltro, che il modo in cui gestiremo le migrazioni attuali e a venire (che, lo sappiamo con precisione, ci saranno e aumenteranno: semmai, sempre più, non solo in ingresso, ma anche in uscita dai paesi europei) avrà risvolti rilevanti – vorremmo dire fondativi – sul patto sociale interno che andremo a costruire: in breve, sull’avvenire stesso delle nostre democrazie, dei nostri orientamenti liberali, delle nostre società aperte. Su questo capiremo se lo saranno ancora. 
 
La prima e fondamentale proposta. A partire dagli anni ’70, tutti i paesi europei hanno progressivamente chiuso gli accessi regolari agli immigrati. Lo shock petrolifero, la crisi economica, il crescere di pezzi di opinione pubblica e partiti anti-immigrati, hanno spinto i governi a chiudere all’immigrazione regolare, nell’illusione di fermarla. Ma, così facendo, hanno semplicemente aperto all’immigrazione irregolare, e non poteva essere altrimenti. Il meccanismo è facilmente spiegabile con un esempio. Immaginiamo di chiudere da domani l’importazione legale di liquori stranieri: l’aspettativa ingenua è quella di fermarla – non entreranno più. In realtà, lo sappiamo tutti, accadrebbe una cosa diversa (che, nella storia, è già accaduta): si aprirebbe un nuovo ampio settore di contrabbando, di economia illegale. Ebbene, è quello che abbiamo fatto con le migrazioni: bloccando sostanzialmente gli ingressi regolari abbiamo regalato un intero settore merceologico alle mafie transnazionali, che hanno avuto cura – essendo estremamente redditizio – di incrementarlo, con procacciatori di affari sguinzagliati nei villaggi dell’Africa ad alimentare una domanda già sostenuta di per sé, allargandola a fasce di popolazione che probabilmente, se non incentivate (alimentando aspettative esagerate e ottimistiche, spesso con informazioni gravemente fuorvianti), non avrebbero attivato un processo migratorio transcontinentale. 
 
Ora, c’è da stupirsi se, non potendo arrivare legalmente, molti ci provano nell’unico modo possibile, ossia illegalmente? E’ evidente per chi scappa da una guerra o da una persecuzione etnica o religiosa: fuggirebbero anche in zattera, sapendo di correre gravi rischi – tanto le prospettive a casa loro sarebbero peggiori, ammesso che una casa ce l’abbiano ancora. Ma lo fanno anche altri. Producendo così una forte immigrazione irregolare (che, se fosse regolare, potrebbe inserirsi molto più facilmente e non creerebbe i problemi che vediamo, anche rispetto alla percezione dell’opinione pubblica). Paradossalmente, dunque, è proprio l’Europa, con la sua legislazione, a produrre migrazioni irregolari che potrebbero invece essere in gran parte regolari e regolate, e definitive laddove potrebbero essere temporanee e reversibili, se ci fosse la possibilità di andare e tornare senza problemi.
 
Dunque la prima cosa da fare è quella di riaprire canali regolari di immigrazione, concordati con i paesi d’origine, anche selezionati in base alle esigenze del mercato del lavoro. Esigenze che in Europa ci sono, trattandosi di un continente che perde ogni anno 3 milioni di lavoratori, che vanno in pensione, e non sono sostituiti da nessuno (i loro posti restano dunque vacanti) semplicemente perché chi avrebbe dovuto sostituirli non è mai nato. L’Europa è in drastico calo demografico: qualunque politica di natalità, opportuna e doverosa, avrà effetto tra vent’anni – intanto? Ci accontenteremo di essere un continente di vecchi? Che delocalizzerà altrove le sue produzioni nella misura in cui perde popolazione in età lavorativa? Perché se non c’è mano d’opera, le imprese vanno altrove: c’è quindi anche questo effetto recessivo paradossale e non previsto dietro l’idea del blocco dell’immigrazione per salvaguardare il lavoro degli autoctoni… Meno immigrati, paradossalmente, vorrà dire meno lavoro per gli autoctoni, non di più.
 
Se l’immigrazione fosse regolare e gestita dagli stati, inoltre, sarebbe possibile porre dei ragionevoli vincoli (certificato penale pulito, ad esempio). Si potrebbero ipotizzare anche dei costi a carico del richiedente (biglietto aereo di ritorno preacquistato, assicurazione sanitaria prepagata); e favorire una ragionevole selezione, magari stabilendo dei punteggi che incentivino alcuni (a seconda del titolo di studio, della conoscenza delle lingue europee, della presenza di parenti in Europa, ad esempio). A chi vuole migrare costerebbe comunque meno sottostare a queste pratiche che affidarsi ai trafficanti, il viaggio sarebbe più sicuro, e ci metterebbe un tempo enormemente inferiore (non potendo semplicemente prendere un aereo, ma dovendo attraversare frontiere e deserti, con i pericoli del caso, il tempo medio di percorrenza della tratta tra l’Africa occidentale e la Libia, senza neanche contare l’attesa dell’attraversamento del Mediterraneo, è superiore a un anno e mezzo…!). 
 
Senza viaggi irregolari gestiti dagli scafisti, si eviterebbero inoltre anche i morti nel Mediterraneo, diventato in questi ultimi anni la frontiera più pericolosa del mondo: morti annegati che sono stati (quelli contabilizzati, almeno, perché di altri non sappiamo, e il mare fa il suo mestiere) 3.771 nel 2015, 5.082 nel 2016, 3.119 nel 2017, oltre 1.000 nei primi sei mesi del 2018, nonostante un drastico calo degli arrivi (con una percentuale documentata assai più alta che in passato). Si tratta di un tributo di morti inaccettabile: che può essere evitato fermando all’origine le immigrazioni irregolari, e aprendo a quelle regolari.
 
Una politica di apertura all’ingresso regolare sarebbe anche l’unica vera legittimazione politica – oltre che un’utile moneta di scambio – per una politica della fermezza, da attuare senza tentennamenti, all’immigrazione irregolare. E potrebbe essere promossa con la collaborazione dei paesi di origine e di transito dei migranti, stabilendo degli accordi che sarebbero anche un riconoscimento di pari dignità tra partner, e che potrebbero includere altre condizioni: anche perché, è evidente, non può essere semplicemente imposta. Una politica, dicevamo, controllata e selezionata: è da quando ci sono le migrazioni irregolari che il livello di istruzione medio dei migranti è calato drammaticamente, rendendo più difficili e costose le dinamiche di integrazione; riportare le migrazioni sotto il controllo degli stati consentirebbe di ritornare a una situazione più accettabile anche per il mercato del lavoro e per le società europee. Inoltre, questo diminuirebbe l’arrivo anche di minori stranieri non accompagnati. Nella storia delle migrazioni sono sempre partiti i padri e le madri. Da qualche anno assistiamo a un aumento esponenziale dei minori, ormai quasi tutti tra i 16 e i 18 anni e maschi: segno che è una filiera migratoria in sé, prodotta precisamente dal blocco dell’arrivo regolare degli adulti – anche questa, dunque, paradossalmente, figlia della nostra legislazione di progressiva chiusura all’immigrazione regolare di adulti e al ricongiungimento familiare. Riaprire i canali regolari ridurrebbe anche questa drammatica anomalia.
 
Tale politica sarebbe anche un segnale forte per dare la sensazione, ai cittadini europei, che lo stato controlla, attraverso i flussi, i confini, non più forzati dai disperati sui barconi (o, nell’Europa continentale, i confini di terra). E sappiamo quanto questa sensazione, questa paura, sia stata determinante nel far emergere sentimenti di frustrazione e di rabbia, e quindi di xenofobia (di cui stanno pagando il prezzo anche gli immigrati arrivati negli scorsi decenni e già integrati: il rifiuto degli stranieri non va troppo per il sottile, nel distinguere tra neo-arrivati e altri immigrati, magari di seconda generazione e/o cittadinizzati) e nel cambiare di conseguenza gli equilibri politici dell’Europa, al punto da mettere a rischio la sua stessa esistenza, almeno nella forma attuale dell’Unione Europea.
 
Attivare intese con i paesi d’origine e di transito significa creare consenso tra i paesi di emigrazione e i paesi di immigrazione, attraverso accordi diplomatici ed economici, in una logica di pari dignità: non l’imposizione vagamente imperialistica delle decisioni europee all’Africa – che, oltre tutto, fa già di più dell’Europa, in proporzione alla popolazione e alla ricchezza pro capite, nell’accogliere migranti e richiedenti asilo. Non significa invece appaltare i costi e l’impopolarità dell’accoglienza – più correttamente del trattenimento – dei migranti ad altri paesi in cambio di denaro, come si è fatto con la Turchia. Perché non si può pensare di sigillare tutto il Mediterraneo (Libia inclusa: un buco, peraltro, che è stato aperto dall’Europa), e perché rischia di diventare un’arma di pressione e di ricatto – un’arma di migrazione di massa, come è stato notato – da far scattare con qualche sbarco mirato tutte le volte che si intende alzare la posta.
 
Per fare ciò, l’Europa deve trattare con una voce sola, potente e con adeguate risorse a disposizione, cosa che nessun Paese europeo, da solo, può fare: nemmeno politicamente, essendo sempre sottoposto al ricatto elettorale delle forze xenofobe interne, che dalla presenza dell’immigrazione non controllata, più che dal contrasto ad essa, ricavano la loro rendita elettorale. Frontex deve diventare una vera Agenzia europea dell’immigrazione, capace non solo di superare gli improponibili accordi di Dublino (che contro ogni logica, trattandosi di migranti che cercano di entrare in Europa, non nei singoli paesi costieri, impongono che il richiedente asilo sia ‘gestito’ dal paese in cui ha messo piede per primo, trasformando la collocazione geografica in destino politico), ma di gestire i respingimenti e i salvataggi, così come l’accoglienza, l’integrazione e la redistribuzione dei migranti, con il necessario sostegno finanziario e le eventuali compensazioni.
 
Dopodiché, occorre ripensare e riformulare la stessa distinzione attuale tra richiedenti asilo e migranti economici, allargando le maglie dal lato di questi ultimi: dato che anche questa distinzione, come è trattata ora, è figlia della chiusura delle frontiere (e ha portato alla demonizzazione dei migranti economici, che sono invece sempre stati la norma, e lo sono tuttora). Mentre per i rifugiati bisogna trarre le opportune lezioni dall’efficacia di misure sperimentali come i corridoi umanitari, che vedono proprio la Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Chiesa Valdese, tra i promotori: di fronte a tragedie umanitarie, che peraltro i paesi occidentali hanno spesso cooperato a produrre, non si può pensare ad alcuna selezione, ma nemmeno si può aspettare che chi scappa da esse arrivi nei nostri mari e sulle nostre coste; a costo inferiore, con maggiore efficacia e giustizia sociale possiamo andarli a prendere ed aiutarli, come doveroso. Mentre per gli altri tipi di migranti siamo giunti all’assurdo per cui, impedendo le migrazioni regolari, costringiamo gli irregolari che sono migranti economici a dichiararsi richiedenti asilo, anche se in maggioranza non lo sono, perché è semplicemente l’unico modo per restare in Europa. Chiediamo loro, in sostanza, di mentirci, in modo da legarci da soli le mani attivando lunghe, costose e inutili pratiche di riconoscimento che arriveranno nella maggior parte dei casi a smentirli: producendo a loro volta un’ulteriore presenza di immigrati irregolari, data la difficoltà e il costo di implementare politiche di rimpatrio significative – tanto più in mancanza della collaborazione dei paesi di provenienza.
 
Tanto vale riaprire canali regolari di ingresso per i migranti economici, bloccare gli arrivi irregolari attraverso accordi, e consentire di attivare le pratiche di richiesta di asilo solo per coloro che ragionevolmente hanno qualche titolo per ottenerlo: e per i richiedenti asilo ‘veri’, e solo per questi ultimi, dovrebbe essere garantito un accesso universale, senza condizioni e forme di selezione. Ciò eviterebbe anche disparità di trattamento nei confronti degli immigrati del passato: che non hanno ricevuto lo stesso tipo di aiuti (in quanto non erano richiedenti asilo, pur provenendo qualche volta dagli stessi paesi e da situazioni analoghe), e tra i quali è già oggi diffuso un atteggiamento molto critico nei confronti delle attuali politiche sui richiedenti asilo – non foss’altro perché l’astio che provocano nei confronti della popolazione autoctona finisce per prendere di mira anche loro. Ma eviterebbe anche quelle che sono percepite, a torto o a ragione, come forme di discriminazione nei confronti dei cittadini dei paesi europei, che non si avvantaggerebbero del welfare predisposto per i richiedenti asilo. E consentirebbe di ripensare progetti di inclusione che non valgano solo per gli stranieri neo-arrivati (i presunti richiedenti asilo, appunto), ma per tutti i cittadini in posizione debole o con delle fragilità rispetto al mercato del lavoro e alla società. Alfabetizzazione, formazione professionale e orientamento al lavoro sono diritti di tutti, parte di quello che dovrebbe essere un welfare universale, non rivolto a singole categorie della popolazione. E progetti in questa direzione che funzionano potrebbero utilmente aprirsi a chiunque ne abbia bisogno: sarebbe un vantaggio per la società intera, immigrati e autoctoni insieme. Questo garantirebbe oltre tutto più legalità, maggiore controllo, e dunque maggiore sicurezza.
 
Fino a qui abbiamo visto soprattutto cosa accade a monte degli sbarchi, e le possibili soluzioni che si possono porre in atto. Ma anche a valle c’è molto da fare. Innanzitutto occorre uscire, oltre che dall’emergenza, dalla mentalità emergenziale, che continua a farci gestire un fenomeno che in sé è strutturale con soluzioni improvvisate e totalmente prive di strategia. Non si tratta di accontentarsi di fare un’accoglienza spesso senza vere prospettive (come accade soprattutto nei paesi dell’Europa del Sud) a dei richiedenti asilo che nella maggior parte dei casi non verranno riconosciuti come tali. Bisogna passare dall’accoglienza emergenziale all’integrazione strutturata: fatta di agenzie nazionali che si occupano davvero della questione, che indicano criteri minimi di integrazione, che controllano, selezionano, valutano e respingono le associazioni e gli organismi che non lavorano all’altezza degli standard individuati. L’integrazione è fatta di apprendimento rapido e intensivo della lingua, di conoscenza della cultura del paese in cui ci si trova, di formazione professionale (tanto più importante dato il basso livello di istruzione di partenza: il numero degli analfabeti anche nella loro lingua d’origine, tra gli attuali richiedenti asilo, è in crescita esponenziale) e di orientamento al lavoro: presuppone dunque delle linee guida stringenti e l’attivazione delle professionalità necessarie (en passant: si tratta di un mercato del lavoro specializzato che si apre, soprattutto per professionalità autoctone). Se pensata come tale, si tratta di un investimento (come lo è la scuola, per capirci): che in pochi mesi, o in un anno (comunque a molto minor prezzo di un percorso scolastico tradizionale), può creare cittadini e lavoratori integrabili nella società e nel mercato del lavoro. Diversamente, se limitata all’accoglienza e a un generico diritto di permanenza, rischia di essere una spesa improduttiva, che per giunta può produrre in misura significativa dropout e irregolari che possono diventare problematici per la società.
 
Nella logica che abbiamo esposto, di un impegno europeo che vada verso l’apertura di flussi regolari e la chiusura ‘collaborativa’ di quelli irregolari, si tratterebbe peraltro di una attività incentrata su coloro che sono già sbarcati, e in futuro su coloro che arriveranno, e che grazie al processo di selezione a monte dovrebbero anche essere maggiormente scolarizzati e quindi più adatti all’inserimento nelle società europee. 
 
E poi, c’è tutta l’enorme partita dei processi di integrazione, della costruzione di meccanismi di inclusione reale (a cominciare dalla cittadinanza, in particolare a partire dalle cosiddette seconde generazioni), di riconoscimento simbolico delle specificità culturali e religiose compatibili con il quadro normativo europeo.
 
L’Europa non può accogliere l’Africa. Né l’Africa – che è già oggi una delle frontiere più promettenti dello sviluppo globale, e diventerà molto presto, in alcune aree, un gigante anche economico, capace di produrre occupazione al suo interno, e probabilmente di attivare futuri processi di immigrazione persino dall’Europa – glielo chiede, o lo vuole. Ma entrambe, Europa e Africa (e altre aree del mondo), possono contribuire a creare un nuovo ordine delle migrazioni, concordato e controllato, nel reciproco interesse. L’Europa in particolare, però, deve accorgersi di essere diventata, in certa misura, e in questa fase, l’America dell’Africa, o almeno una meta fortemente attrattiva, assumendosi le responsabilità legate a questo ruolo. E per farlo deve uscire dal suo stato attuale di schizofrenia: che la vede in preda a sussulti irrazionali con tratti paranoidi, da un lato, e dall’altro del tutto passiva, incapace di riflessione e di azione razionale, in preda ai suoi demoni e incapace di contrastarli e di gestirli. Cosa che potrà fare solo con un sussulto di dignità, di razionalità, e di visione. Quella che hanno avuto coloro che l’Europa l’hanno immaginata. Quella che non hanno coloro che rischiano di affondarla.
 
I flussi migratori sono per l’appunto flussi, come tali regolabili e canalizzabili, almeno in buona misura. Sta a noi decidere se lasciarli all’anarchia di un mercato primitivo, e alla volontà dei nuovi schiavisti, o assumerci la responsabilità di affrontare i problemi per provare, finalmente, a risolverli. Nell’interesse nostro e di tutti.