16 Septiembre 2019 17:30 | Sala María Zambrano, Círculo de Bellas Artes
Intervento di Khajag Barsamian
Vorrei esprimere la mia gratitudine per l’opportunità che mi viene offerta di parlare oggi in questo consesso. Vi parlo oggi come un servitore di lunga data della Chiesa Armena, avendolo fatto a beneficio della mia gente in Europa, Medio Oriente, America, e nella nostra madrepatria Armenia.
Gli armeni sono sparsi ovunque nel mondo e vi sono molte spiegazioni storiche di questa diaspora che risalgono ai tempi antichi. Ma la causa principale della nostra dispersione è da collocarsi un secolo orsono, quando l’impero ottomano ha preso di mira i suoi cittadini armeni destinandoli all’estinzione di massa e all’esilio, in un tragico episodio conosciuto come il Genocidio Armeno.
Un milione e mezzo di cristiani armeni perse la vita. Molti altri sono stati forzati, a milioni, all’esilio, lontani dalla loro terra natia. Una civiltà, quella Armena, fu bruscamente recisa in modo violento. Quasi ogni famiglia armena oggi porta le cicatrici, fisiche e spirituali, del Genocidio armeno. E’ stata la catastrofe più terribile che abbia mai colpito il nostro popolo.
Ma c’è qualcosa che si aggiunge alla tragedia, e rende le cose ancora peggiori. Ed è il fatto che la stessa catastrofe avrebbe più tardi colpito altri popoli. Un secolo fa, il mondo non ha tratto alcuna lezione dalla sofferenza del popolo armeno. Di conseguenza, altri popoli — Ebrei, Cambogiani, Ruandesi, altri— hanno sofferto per la disgrazia del genocidio nei cento anni successivi a quello armeno. Fino ai giorni d’oggi.
Per questo, il tema di questo panel—la prevenzione del Genocidio – mi sta molto a cuore. Il mondo intero riconosce che il genocidio è il più grave crimine inaudito esistente. Tuttavia, in qualche modo, i genocidi ancora avvengono— e il mondo sembra incapace di reagire, ancora meno di prevenirli. Com’è possibile?
Ho detto che si tratta di un tema che mi sta a cuore, e davvero il mio è un interesse molto personale – perché il genocidio ha avuto profonde conseguenze sulla storia della mia famiglia. Con il vostro permesso, vorrei condividere con voi questa storia oggi. E’ la storia della mia nonna paterna.
Fu lei a instillare nei nostri cuori la fede in Cristo – primo su mio padre, più tardi su mio fratello e infine su di me. Quando ero ancora un ragazzo, davo per scontati l’amore e la pietà di mia nonna. Ma quando ho raggiunto un certo livello di maturità e conoscenza, mi sono davvero reso conto di che donna speciale fosse mia nonna.
Era una giovane sposa, incinta di tre mesi, quando i soldati ottomani le portarono via suo marito, di cui non ebbe ad avere più notizie. Correva l’anno 1915, e mio nonno fu destinato ad essere uno degli innumerevoli martiri del Genocidio Armeno. Provate ad immaginare di essere una giovane ragazza, in un mondo in cui all’improvviso la vostra identità equivale ad un crimine. Immaginate che i vostri sogni per un futuro felice e pacifico vengano infranti. Immaginate di essere in attesa di un bimbo quando il mondo intorno viene incendiato.
Tuttavia, malgrado gli orrori che la circondavano, mia nonna rifiutò che la porta della vita si chiudesse davanti a lei. Si appoggiò su qualcosa di più grande del coraggio umano, per sopportare quei tempi. Molti anni dopo, aveva ancora ben chiaro di “cosa” si trattasse. Era la sua fede profonda, la sua convinzione che Dio aveva un compito da affidarle. Con questa fede sopravvisse ai massacri, diede i natali a mio padre e si prese cura dei suoi suoceri anziani.
La fede nel progetto di Dio le diede la determinazione nell’affrontare le durezze della vita. Più di ogni altra cosa, la fede trasformò ciò che poteva essere una vita di amarezza, in una vita di speranza e di invincibile e sovrabbondante amore.
L’attuale generazione di armeni deve la sua esistenza a gente come mia nonna. Ed è l’esperienza di tanti sopravvissuti, è il loro esempio, che deve stagliarsi di fronte a noi ogni volta che contempliamo il crimine di genocidio: si tratta sia dell’orrore che vogliamo prevenire, sia dello spirito di umanità da proteggere e preservare.
Per questo il primo passo per prevenire il genocidio è il semplice atto di FARE MEMORIA. Dobbiamo rammentarci che il genocidio è successo e può succedere ancora. Dobbiamo ricordare le persone che ne hanno sofferto, impararne i nomi e le singole storie. Dobbiamo ricordare, e mai dimenticare.
La dimenticanza è il grande facilitatore del male in questo mondo. La nebbia dell’ignoranza offre a persone cattive l’opportunità di agire—le incoraggia a credere che resteranno impunite. L’evidenza suprema di questo viene da una celebre citazione, marchiata a fuoco nella coscienza di ogni Armeno: Eccola: “Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?”
La frase è attribuita naturalmente a Adolf Hitler. Profferì quelle terribili parole nell’avvento dell’invasione nazista della Polonia, e il loro spirito avrebbe finito per suffragare l’ordine impartito di sterminare gli Ebrei d’Europa nell’Olocausto. Quelle parole sono la prova che Hitler e i nazisti presero coraggio dal sapere che la Turchia ottomana era uscita impunita dal massacro della popolazione armena. La predisposizione umana alla dimenticanza rafforzò Hitler nella convinzione di poter proseguire con il genocidio. Lo stesso si potrebbe dire per altri mostri genocidari della storia.
Quale è l’antidoto alla dimenticanza? Sicuramente L’EDUCAZIONE— la considero un passo ulteriore nella prevenzione del genocidio. L’educazione è la via attraverso la quale le memorie individuali sono estese al mondo intero e alle generazioni future. L’educazione avviene spesso attraverso canali formali accademici, come un corso universitario o un curriculum scolastico. Ma può essere anche diffusa attraverso forme di cultura: le arti, i libri, i film, la musica. Per la loro natura particolare, tali sforzi culturali sono spesso più incisivi – e possono comunicare una verità più profonda di nozioni o fatti espressi in modo accademico.
Ovviamente sono entrambi necessari e camminano fianco a fianco. Tuttavia, alle volte penso che gli sforzi educativi relazionati al genocidio si concentrino troppo su questioni politiche: sull’identificazione dei colpevoli, sul supporto a una causa tesa al riconoscimento o alla riparazione. Sono problemi importanti, non lo nego. Ma esistono approcci meschini e provinciali che - almeno sulla base della mia esperienza – penso che distolgano la nostra attenzione dalle questioni più ampie e universali correlate ai genocidi e che riguardano la morale, i diritti umani, e le condizioni sociali in cui tutto ciò avviene. Se il nostro obiettivo è la prevenzione del genocidio, e non meramente l’acquisizione di nozioni storiche su di esso, ebbene questioni più ampio respiro debbono acquisire centralità nei nostri sforzi educativi.
Tenendo a mente la prevenzione come obiettivo, dobbiamo trovare un modo di riconoscere il genocidio nella sua fase nascente. Questo ci porta alla questione della sua DEFINIZIONE: come identifichiamo un “genocidio”? Vorrei far notare che sebbene lo sterminio di massa risalga ai tempi antichi della storia umana, solo nelle ultime sette decadi che il crimine di genocidio è stato descritto in modo ultimativo, grazie ad uno studioso di diritto del XX secolo, Raphael Lemkin. Fu Lemkin a coniare il termine “genocidio.” Il suo contributo, basato sulla sua esperienza dell’Olocausto e sui suoi studi sui massacri Armeni, portò alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Genocidio del 1948. Permettetemi di condividerlo.
L’ONU definisce “genocidio” nel modo seguente: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: (a) uccisione di membri del gruppo; (b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; (e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”
Tale definizione è un’arma importante nella prevenzione del genocidio, in parte perché ci offre degli indizi di pericolo,—“avvertenze”— da ricercare nelle fasi iniziali di un tentativo di sterminio di massa. Ad esempio molte disposizioni non prevedono l’uccisione tout court, ma infliggono condizioni che inevitabilmente conducono alla morte di massa. E’ di importanza vitale che le autorità politiche, e le organizzazioni che hanno un compito di operare da “cane da guardia” morale, restino vigilanti quando tali condizioni si avverano ovunque nel mondo. In genere, quando si notano segni di grave disumanizzazione di una popolazione da parte di un’altra, ciò dovrebbe essere riconosciuto come un segnale di un genocidio in preparazione.
La mia osservazione finale riguarda il ruolo delle autorità religiose. E’ scontato dire che l’idea di genocidio è totalmente all’opposto degli insegnamenti cristiani, ed è proibita severamente in altre tradizioni religiose. Purtuttavia, è triste constatare che l’incitamento alle passioni religiose è stato un metodo frequentemente utilizzato da persone cattive con l’intento di perpetrare la violenza di massa.
Ciò impone una grave responsabilità ai leader religiosi. I leader religiosi non devono mai permettere a loro stessi di essere strumentalizzati a questi fini. Ancora più importante, debbono esercitare l’autorità di cui dispongono per ALLENTARE LE TENSIONI quando si corre il pericolo di raggiungere un punto di crisi. Questo presuppone operare per il superamento delle divisioni interreligiose, attraverso l’incontro tra leader di fedi differenti – che deve diventare routine - al fine di proporre modelli di comportamento armoniosi, pacifici e rispettosi per i loro rispettivi fedeli.
Nel mio ministero ho visto gli effetti positivi di tali sforzi. Per tanti anni ho servito al Board della Fondazione Appello alla Coscienza: un gruppo fondato da un rabbino sopravvissuto all’Olocausto, che riunisce assieme capi religiosi in momenti di potenziale conflitto. E ho supportato “Freedom of Conscience” [N.d.T. Libertà di Coscienza] in varie società. Ho imparato da questa esperienza che i leader religiosi delle società in conflitto vivono spesso molto isolati l’uno dall’altro.
Ricordo di aver preso parte a un meeting a Vienna nel marzo 1989: eravamo riuniti in quanto leader di tre gruppi religiosi: Ortodossi, Cattolici, Musulmani, per una conferenza. Durante la pausa pranzo i tre leader religiosi provenienti dal Kosovo (Musulmani, Ortodossi e Cattolici) sedevano allo stesso tavolo. La loro conversazione era piacevole e addirittura ridevano assieme. Fummo poi sorpresi nell’apprendere dagli stessi leader che non avevano mai avuto l’opportunità di sedersi a tavola insieme fino ad allora. Erano rimasti isolati gli uni dagli altri. Ma ci sentimmo incoraggiati dalla loro positiva reazione al meeting, e dall’incontro reciproco. Hanno anche firmato una dichiarazione comune nella quale i tre insieme affermavano: “Seppure non dimenticando le nostre sofferenze, vogliamo sottolineare ai nostri rispettivi fedeli e agli abitanti del Kosovo che la storia ci sta offrendo una nuova narrazione del passato. Nessuno può cambiare l’immodificabile passato. Ma abbiamo in mano il futuro per influenzarlo e guidarlo. Nel nome dei nostri fedeli, chiediamo di porre fine alla sofferenza che ha afflitto i nostri popoli per così tanto tempo, e di guardare avanti, per trasformare l’attuale epoca di scontro in un’epoca di cooperazione”.
Sono testimone di un simile processo avvenuto tra i miei compatrioti. Molte volte negli ultimi trent’anni, il conflitto a bassa intensità che coinvolge l’Armenia e il suo vicino islamico Azerbaigian ha minacciato di esplodere. Ma in varie di queste occasioni, i leader cristiani dell’Armenia e i leader musulmani dell’Azerbaijan sono riusciti con successo ad allentare le tensioni, mostrandosi assieme in pubblico, denunciando la violenza, e promuovendo modelli di tolleranza verso l’altro.
Tali evidenti esempi di rispetto mutuo, amicizia e riconoscimento reciproco possono mostrare al pubblico che un rapporto nuovo – non più basato sull’aggressione e sulla violenza –è possibile. Ciò aiuta a orientare la mentalità corrente verso una direzione positiva, lontana dal fanatismo e tendente alla tolleranza. La lezione è la seguente: quando i leader religiosi trovano un terreno comune, e si incontrano nel momento delle divisioni interreligiose, possono intervenire anche in situazioni pericolose e hanno un successo tangibile nell’evitare la violenza.
Naturalmente nessuna delle cose che ho menzionato può garantire che la violenza sarà evitata. Prevenire i genocidi è un compito immane non facile da intraprendere. Ma vi è anche un enorme imperativo morale: utilizzare qualunque tipo di strumento di cui disponiamo per prevenire il genocidio, con ogni sforzo possibile. Gli strumenti che ho menzionato—Memoria, Educazione, una Definizione forte di genocidio come crimine, e il potenziale di Allentare le tensioni religiose, non richiedono eserciti potenti o nazioni forti per poter essere efficaci. Sono alla portata di tutti noi, e richiedono solo una disponibilità urgente a metterli in pratica.
In quanto persone di fede e servitori di Dio, è imperativo per noi accettare questa sfida. Grazie.