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Regina Egle Liotta Catrambone

Co-fondatrice et Directrice du MOAS, Italie
 biographie
Nell’estate del 2013 mi trovavo con la mia famiglia a bordo di una imbarcazione sulla rotta che collega Lampedusa e Tunisia. Eravamo in vacanza di ritorno dalla piccolo Isola siciliana che nel tempo è diventata simbolo della migrazione dal Nord Africa all’Europa. Ad un tratto, sulla superficie dell’acqua vidi una giacca beige. Quando chiesi come mai fosse lì, mi fu risposto che probabilmente quella giacca era appartenuta a una persona che aveva tentato la pericolosa traversata via mare e che forse non era arrivata a toccare terra.
 
In quel momento io e mio marito abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa, che non potevamo volgere lo sguardo altrove per ignorare la realtà delle tante morti in mare. Subito dopo, proprio da Lampedusa Papa Francesco, durante il suo primo viaggio ufficiale, lanciò un appello contro la globalizzazione dell’indifferenza e invitò tutti ad agire per aiutare il fratello o la sorella che soffre. Non potevamo continuare a vivere come dentro delle bolle di sapone, belle da vedere ma prive di significato.
 
Il seme era già stato piantato nel nostro cuore e l’ennesimo naufragio ci spinse ad agire concretamente. Il 3 ottobre 2013 di fronte Lampedusa morirono 368 persone: non dimenticherò mai lo shock nel vedere i corpi senza vita sulla sabbia cristallina. Quel luogo meraviglioso, la spiaggia dei Conigli, dove avevamo trascorso qualche giorno di vacanza adesso era diventato come un cimitero a cielo aperto: era arrivato il momento di agire. Restare indifferenti o non fare nulla significava far morire altre persone in mare e in cerca di salvezza.
 
Come esseri umani, avevamo il dovere di portare il nostro contributo.
Come imprenditori, sentivamo la responsabilità di usare talenti e risorse a servizio dei fratelli e delle sorelle in fuga da guerre, persecuzioni e povertà estrema.
 
Tutti gli occhi erano puntati sulle banchine dei porti, ma nessuno sapeva veramente cosa succedesse lungo la rotta migratoria più letale al mondo. La gente moriva in mare, ma l’attenzione era interamente concentrata sulle banchine dove sbarcavano i sopravvissuti ai viaggi della speranza. Per questo, con la mia famiglia decidemmo di acquistare coi nostri fondi privati un peschereccio che abbiamo interamente riadattato alla sua nuova funzione di salvare vite in mare. Fra le principali modifiche voglio ricordare la costruzione di una piattaforma per il lancio e il decollo dei droni che siamo stati i primi a usare per i fini di ricerca e soccorso in mare. 
 
Convinti dell’uso positivo della tecnologia, abbiamo utilizzato due droni per individuare il maggior numero possibile di imbarcazioni in pericolo, condividendo le informazioni con l-MRCC di Roma, responsabile del coordinamento delle attività SAR. In quel momento, in mare c’era solo la Missione militare e umanitaria Mare Nostrum, voluta dal governo italiano in seguito alla tragedia del 3 ottobre a Lampedusa e unica nel suo genere in quanto esplicitamente volta a salvare vite in pericolo. Nell’agosto 2014, la nave MOAS -la Phoenix- ha preso il largo per dirigersi verso la regione SAR e fino a ottobre abbiamo salvato oltre 3000 persone. Il nostro motto è e continua ad essere “Nessuno Merita di Morire in Mare” e il principio alla base di ogni nostra missione è l’impegno ad alleviare la sofferenza delle comunità di migranti e rifugiati più vulnerabili al mondo. 
 
Dopo la prima missione interamente finanziata con fondi privati, MOAS è diventata una organizzazione internazionale con sostenitori e donatori in tutto il mondo e ha ispirato altre organizzazioni che sono scese in mare per salvare vite umane in pericolo. Sapevamo benissimo di non essere “la soluzione”, ma le persone morivano mentre ci si perdeva in infiniti dibattiti politici. La nostra intenzione era colmare un vuoto a causa del quale le persone perdevano la vita in mare, speravamo di lanciare un messaggio forte contro l’indifferenza e che nel frattempo si trovassero soluzioni efficaci e a lungo termine per affrontare una crisi migratoria che verrà ricordata per sempre come il tratto distintivo del nostro tempo. Di certo non avremmo mai pensato che quattro anni dopo bambini, donne e uomini continuano a perdere la vita in cerca di un futuro di pace e salvezza in una atmosfera avvelenata dal razzismo, dal populismo e dall’indifferenza. 
 
Dopo 3 anni in mare nel Mediterraneo Centrale, dopo una missione nell’Egeo per mitigare i decessi sulla pericolosissima rotta fra la Turchia e la Grecia, nell’agosto 2017 abbiamo sospeso la missione SAR alla luce del mutato scenario operativo. MOAS temeva infatti di diventare parte di un meccanismo mirato a prevenire gli sbarchi sulle coste europee senza curarsi del destino e delle violazioni ai danni delle persone intrappolate o riportate in Libia. Questo paese, spesso indicato come luogo dove riportare i naufraghi tratti in salvo, non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sullo Status di Rifugiato e il caos che imperversa al suo interno non lo rende sicuramente un posto sicuro.
 
Anche questa volta, abbiamo agito seguendo l’appello di Papa Francesco che dopo l’esodo dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh iniziato il 25 agosto 2017 invitava tutti a non dimenticare la sofferenza di questa comunità storicamente perseguitata. I Rohingya sono una minoranza apolide e musulmana da sempre marginalizzata e perseguitata in Myanmar, paese a maggioranza buddhista che non li ha nemmeno riconosciuti come suoi cittadini nel 1982 quando altri 135 gruppi etnici presenti nel paese ricevettero un riconoscimento ufficiale. Lungi dall’essere un cavillo burocratico, la negazione della cittadinanza ha reso i Rohingya dei fantasmi facili da perseguitare, la loro libertà di movimento è stata fortemente limitata e la loro possibilità di trovare un lavoro e ricevere adeguata istruzione praticamente vanificata. 
 
L’anno scorso in pochi mesi circa 700.000 Rohingya si sono riversati in Bangladesh in condizioni precarie e dopo viaggi estenuanti durante i quali molti hanno perso la vita. Attualmente sono oltre 900.000 i Rohingya in Bangladesh e si stima che +1.3 milioni di esseri umani abbiano disperatamente bisogno di assistenza umanitaria. Mi preme inoltre ricordare che quello del 2017 è stato il terzo grande esodo della storia recente e che in Bangladesh dalla fine degli anni 70 è stato creato il più grande campo profughi al mondo (Kutupalong) e che lungo la rotta del Mare delle Andamane (dove MOAS ha condotto una missione di osservazione di un mese fra aprile e maggio 2018) un numero imprecisato di persone ha perso la vita. Si stima infatti che il tasso di mortalità sia 1.2%, ma la verità è che nessuno sa veramente quante persone abbiano rischiato la pericolosa traversata senza toccare terra. Quella stessa rotta nel 2015 ha registrato una gravissima crisi umanitaria, che in pochissimi conoscono, quando a causa del fenomeno delle imbarcazioni fantasma migliaia di persone persero la vita abbandonate da trafficanti senza scrupoli a bordo di imbarcazioni insicure nel tentativo di raggiungere un luogo sicuro. Il fatto che non ne siamo a conoscenza, non significa che la gente non muoia. 
 
Ad inizio settembre il team MOAS a bordo della Phoenix, ormai divenuta faro di speranza per le comunità più vulnerabili di migranti e rifugiati, è giunto in Bangladesh per consegnare (in due tornate) 40 tonnellate di aiuti umanitari ed alimentari al governo bengalese in modo da aiutarlo ad affrontare l’emergenza. Allo stesso tempo, dopo una attenta analisi delle esigenze in campo, abbiamo considerato prioritaria l’assistenza sanitaria: il 14 ottobre (esattamente un anno fa) abbiamo aperto la prima Aid Station a Shamlapur, un villaggio di pescatori, e un mese dopo abbiamo aperto la seconda a Unchiprang, un insediamento ancora più remoto e meno servito. Da allora, nei nostri centri per l’assistenza medica primaria (ce ne sono 33 in totale) sono state curate ed assistite oltre 80.000 persone fra Rohingya e bengalesi che li ospitano dando enorme prova di fraternità in un paese a reddito medio-basso. 
 
Oltre 80.000 bambini, donne e uomini hanno ricevuto cure mediche grazie alla grande famiglia MOAS che ha potuto contare, fra gli altri, anche sull’aiuto della Comunità di Sant’Egidio con cui condividiamo valori e principi al servizio degli ultimi. Non dimentichiamo inoltre che quanto è avvenuto ai danni dei Rohingya è stato definito dalle NU come esempio da manuale di pulizia etnica, crimini di guerra e contro l’umanità e genocidio. 
 
Tuttavia, sempre più spesso, ho la sensazione che ci siamo abituati alle notizie dei naufragi o dei genocidi, che ci disinteressiamo al dolore degli altri e che ci chiudiamo in un egoismo soffocante. Ci siamo abituati ai numeri e alle statistiche e dimentichiamo che dietro ogni numero c’è una persona che ha dei sogni, delle speranze e sogna di vivere in pace. Siamo così abituati a sentir parlare delle persone in fuga da guerre e persecuzioni tramite stereotipi negativi da dimenticare che anche noi fuggiremmo se la nostra vita o quella dei nostri figli fosse in pericolo. 
 
Ma allora cosa possiamo fare concretamente nel breve e nel lungo periodo?
Nell’immediato possiamo impegnarci a sostenere chi ogni giorno salva vite umane, chi cura e assiste coloro che ne hanno bisogno. Ma soprattutto dobbiamo sviluppare una visione a lungo termine che smetta di vedere la migrazione globale come una emergenza. 
Non lo è! Negare la migrazione non la farà smettere.
Negare la migrazione farà solo aumentare il numero di morti di speranza. Le persone in fuga da situazioni invivibili troveranno sempre un modo per tentare di mettersi in salvo: se non avranno vie sicure e legali, saranno i trafficanti di morte ad approfittarsene.
È come avere un palloncino pieno di aria: se facciamo pressione da un lato, l’aria si sposta ma non viene eliminata. Nel peggiore dei casi, esplode.
 
La buona notizia è che possiamo metter fine ai flussi migratori fuori controllo e alle morti in mare o sulla terraferma, garantendo sicurezza alle persone e ai paesi che le accolgono. Come fare? Aprendo canali sicuri e legali, fornendo una alternativa ai barconi della morte e ai viaggi in mano ai trafficanti che trattano le persone come merci, come MOAS chiede da oltre due anni con una campagna specifica. I corridoi umanitari sono uno strumento prezioso per tutelare gli esseri umani perché si basano sul criterio della vulnerabilità e su una selezione operata sul territorio (paesi di transito o origine) tramite partner locali che agevolerebbero il processo di ingresso nel paese di arrivo. Il modello messo in atto da Sant’Egidio è perfetto per garantire che le persone arrivino in tutta sicurezza e ricevano la necessaria assistenza legale e relativo supporto per l’integrazione. 
Un ulteriore strumento è costituito dagli schemi di resettlement (da paesi terzi) e relocation (all’interno dell’UE) che consentirebbero di evitare situazioni di sovraffollamento insostenibile in alcuni Paesi. Il motivo principale per cui non funzionano è che i vari Paesi si sono barricati nel proprio egoismo e si illudono di poter costruire muri e recinzioni di filo spinato per arginare le 68.5 milioni di persone “on the move”” secondo l’UNHCR.
 
Nessun muro sarà mai troppo alto per una madre che vuole salvare il proprio figlio. Nessuna recinzione sarà mai troppo affilata per un giovane che rincorre il proprio futuro lontano dalla guerra, dalla persecuzione e dall’indigenza. 
 
Spero con questo mio discorso di essere riuscita a darvi un’idea del lavoro che MOAS porta avanti ogni giorno in silenzio e con l’augurio di aiutare i più vulnerabili e mi auguro di avervi infuso la speranza necessaria per intraprendere un cammino di pace insieme. Per chiudere, voglio ricordare solo che gli strumenti legali esistono per proteggere le persone. Ma nessuna convenzione, nessuna legge, nessun regolamento potrà sostituirsi all’empatia e alla misericordia che ci fanno vedere nel prossimo noi stessi. Come ha ribadito il dottor Mukwege, premio Nobel 2018 insieme a Nadia Murad per il loro impegno a fianco delle donne vittime di stupro usato come arma di guerra, “in ogni bambino rivedo i miei figli”.
È facile essere disumani coi numeri e con le statistiche. 
I numeri e le statistiche non hanno un cuore, non portano i segni delle ferite e delle torture. Molto meno semplice è offendere e maltrattare un essere umano in carne ed ossa che coltiva sogni e speranze come ciascuno di noi. 
 
Grazie.