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Guzmán Carriquiry

Secretario de la Pontifica Comisión para América Latina, Santa Sede
 biografía

Quando si parla di violenza negli odierni scenari globali si tende immediatamente a pensare all’11 settembre, all’attentato terrorista ad Atocha, a Madrid, o alla violenza omicida più recente in Norvegia o si rivolge l’attenzione ai vari teatri di guerra ai nostri giorni. Come non tener presente, però, un salto di qualità nell’estensione e nell’intensità di una violenza diffusa che pone sotto scacco e sconvolge quella “tranquillità nell’ordine” che Santo Tommaso indicava come un bene di prima importanza del vivere civile. In America Latina il crimine aumenta d’anno in anno e diventa sempre più violento. Basta leggere i titolari dei giornali nei paesi latinoamericani o i risultati dei sondaggi di opinione per avvertire che il problema della sicurezza balza come una delle prime e più urgenti preoccupazioni della cittadinanza. Abbiamo sotto lo sguardo le inaudite violenze delle organizzazioni criminali del narcotraffico nel Nord del Messico, vicino alla frontiera con gli Stati Uniti, ma che succedono dappertutto nel continente nelle lotte dei gruppi criminali per il controllo delle reti di distribuzione della droga. La tradizione di violenza in Colombia, ancora alimentata dal mix tra guerriglia e narcotraffico e dall’operare dei gruppi paramilitari e di violenza cittadina, non sembra affatto diminuire. Le micro culture di violenze giovanile di gruppo trovano espressione di particolare brutalità nelle “maras” o “zetas” centroamericane. E cosa dire delle immagini di guerra aperte nelle favelas di Rio di Janeiro, dove mitragliette ultra-moderne, bazooka e persino carri armati ed elicotteri fanno parte della scena? L’affare del sequestro di persone ha provocato anche il moltiplicarsi delle residenze a modo di fortezze, con le proprie guardie private e raffinati sistemi di allarme e di sicurezza.
     Certamente c’è una secolare tradizione di violenza in America Latina d’una parte, incubata in società lacerate, attraversate da disuguaglianze scandalose, da molte situazioni di marginalità e di esclusione e d’altra parte, diventata forma abituale di partecipazione nella lotta per il potere nella mancanza di una cultura della legalità e di una democrazia matura. Oggi però la situazione sembra divenire a volte incontrollabile.
     Nonostante la precarietà di informazioni su questa materia, si può certamente affermare che l’America Latina è la regione più violenta del mondo, ad eccezione forse dell’Africa sub-sahariana. Mentre il tasso di omicidi nella regione ha raggiunto la media di 27,5 omicidi ogni 100.000 abitanti, quella media mondiale è soltanto di 10,7 omicidi ogni 100.000 abitanti e quella dell’Europa meridionale appena raggiunge i 3 omicidi ogni 100.000 abitanti. Negli ultimi 20 anni quel tasso è cresciuto tra noi di più del 50%. E se la media latinoamericana è del 27.5 omicidi ogni 100.000 abitanti, bisogna tener presente che in Colombia è del 84,6 omicidi, 43 in El Salvador, 31 nel Brasile (sempre ogni 100.000 abitanti). E stiamo considerando soltanto la violenza omicida, senza includere ancora quella che provoca lesioni personali, anche gravi, e la grave diffusione della violenza domestica. E`impressionante rilevare che, da recente, la speranza di vita  a Recife, nel Brasile, si è ridotta in quasi 3 anni, in 2 anni e mezzo in San Pablo e qualcosa di più di due anni a Rio de Janeiro. Il Brasile ha un tasso di mortalità per arma di fuoco 66 volte maggiore che quello della Francia.
     Questa violenza diffusa si concentra specialmente nelle megalopoli ma si estende gradualmente nelle città di media grandezza. Messico, Tijuana, Ciudad Juarez, Cali, Bogotà e Medellìn, Recife, Rio e San Paolo sono teatro di frequente violenze e di sensazioni di quotidiana, ordinaria insicurezza.  Nella crescita sregolata e squilibrata di grandi città, dove convivono le maggiori disuguaglianza e buona parte della popolazione manca di lavoro o vive dell’economia informale, si creano condizioni propizie per lo scatenarsi della violenza. Non è che la povertà generi violenze. Il crimine è più in funzione delle disuguaglianze stridenti, che alimentano sentimenti di carenza, di frustrazione e di esasperazione, che in relazione alla proporzione di gente povere nelle comunità. Tuttavia, tutto ciò è diventato brodo di coltura per l’estendersi della rete del narcotraffico organizzato, e con esso della crescita del commercio illegali delle armi, dei soldi sporchi, della violenza più brutale. La droga, che era in altro tempo il “lusso” ozioso dei rampolli delle classi possidenti, adesso si è drammaticamente diffusa in ambienti popolari, minaccia di erodere e distruggere la tempra umana dei popoli e si diffonde come metastasi che corrompe il corpo sociale.
     E’ perciò che tanto la violenza domestica come la violenza sociale stanno passando ad essere priorità nelle agende politiche dei governi della regione, così come delle agenzie regionali e persino delle istituzioni finanziarie multinazionali. L’Assemblea generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), che si è svolta a San Salvador nel giugno scorso, ha deciso la creazione di un piano di azione emisferico per combattere il crimine e l’insicurezza nella regione.
     C’è bisogno di meccanismi e iniziative di repressione più adeguate ed efficaci contro la violenza. La repressione però diventa tanto più difficile da intraprendere, e da intraprendere efficacemente, quando lo Stato ha permesso per lunghi tempi che guerriglie e mafie occupassero molti spazi regionali o di quartieri interi, sostrati al controllo dello stesso Stato, in cui si è esercitato di fatto un potere parallelo. Inoltre, come non tener presente le frontiere a volte non molto ben definite tra forze dell’ordine e forze del crimine. Soltanto nel 2007 la polizia brasiliana uccise più di 1.300 giovani a Rio di Janeiro e a quasi 500 a San Paolo. E cosa dire delle azioni repressive delle varie guardie del corpo e delle forze para-militari? Il veleno della corruzione si insinua dappertutto. La riforma della giustizia e delle forze di sicurezza sono richieste ovunque. 
     E’ vero che una crescita economica accompagnata da maggiore equità, dal moltiplicarsi delle opportunità scolastiche e lavorative, può portare con sé ad una più inclusiva coesione sociale. Politiche pubbliche e politiche sociali che vadano in questa linea - e che sono messe in pratica in molti Paesi latinoamericani -, possono operare come misure tendenti a diminuire il tasso di violenza diffusa, ma non  lo fanno “meccanicamente” e richiedono di molto tempo per raggiungere qualche successo perché la violenza tende ad auto-alimentarsi e riprodursi per inerzia.
    Molto importante è fare tutto il possibile per sradicare gradualmente  la cultura della violenza che impregna il tessuto sociale. Essa trova soprattutto nei giovani i protagonisti e le vittime. Ci sono quasi 40 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che, in tutta l’America Latina, non studiano ne lavorano, gioventù specialmente vulnerabile attratta dalla violenza di gruppo o dalle rete di criminalità organizzata. Le cifre sono allarmanti: l’80% delle carceri sono occupate da giovani tra 20 e 35 anni mentre le vittime di crimini violenti 9 volte su 10 sono giovani.
     La cultura della violenza si trasmette e si apprende, in grande misura,  osservando la condotta dei genitori o dei fratelli maggiori. Si impara la violenza nella tenera età a seconda dei comportamenti aggressivi nell’ambiente familiare. Quando crescono i livelli di violenza nella famiglia di origine, la probabilità che un bambino diventi violento quando adulto anche aumenta. E questa cultura della violenza cresce e si trasmette sopratutto nelle famiglie mal costituite, senza un rapporto matrimoniale stabile, senza una comune paternità e maternità, senza una stabilità lavorativa, con scarsi livelli di scolarità dei suoi componenti, abitando in condizioni di miseria e promiscuità.
     Perciò risulta fondamentale il lavoro educativo che si svolge sia a livello della vita matrimoniale e famigliare sia a livello delle generazioni giovanili. Questo compito educativo, di formazione della persona, di crescita dell’ autocoscienza della propria dignità e della dignità altrui, di interiorizzazione di atteggiamenti di rispetto nei legami della convivenza, di padronanza di una vera libertà e responsabilità, è certamente arduo e richiede molta pazienza e perseveranza. Solo può essere sostenuto e alimentato da un grande amore per la vita e il destino di tante persone che vivono in situazioni di disagio e confusione. Non porta con sé risultati immediati ma, alla lunga, è l’unico cammino veramente efficace per combattere la violenza, creando una cultura de rispetto per la vita e per la dignità umana che vada diffondendosi capillarmente nel tessuto sociale.
     La Chiesa cattolica è certamente la principale agenzia educativa in questo senso. Lo sono anche altre comunità cristiane, ma la Chiesa cattolica gode di possibilità e ha responsabilità molto maggiori nelle società latinoamericane. Il solo fatto di essere un “collante” comunitario in mezzo a situazioni di disfacimento è già un suo contributo singolare e decisivo. Senza di essa, soffrirebbe molto di più la coesione sociale. Rimarrebbe il “si salvi chi può” o il “tutti contro tutti”. Il mistero di comunione, che è la Chiesa, tende in certa misura a irradiarsi nel tessuto sociale. La tradizione cristiana, che fa riconoscersi fratelli perché figli dello stesso Padre, è profondamente radicata nel sostrato culturale dei nostri popoli. Attraverso tutte le sue attività liturgiche, catechetiche, educative, missionarie e caritative, la Chiesa comunica il Vangelo, che è comandamento di amore, buona notizia sulla dignità umana, gratitudine per il dono della vita e della vita in abbondanza. Tutto ciò è un potente argine contro la diffusione della violenza. Inoltre, famiglia e gioventù sono ambiti prioritari nell’azione educativa della Chiesa. Molto di più si potrebbe aspettare delle numerosissime istituzioni scolastiche cristiane. E quante sono le comunità religiose, le “caritas”, i movimenti ecclesiali e molte altre istituzioni cristiane che sanno creare attorno a se, nella prossimità di gruppi giovanili a rischio o nell’amore preferenziale ai poveri, ambienti, opere e attività capaci di venire incontro ai loro bisogni, di aiutarli a socializzare in senso umano, di crescita personale e sociale. E nonostante tutto ciò, rimane posta la questione della contraddizione tra la confessione cattolica della stragrande maggioranza dei popoli e l’alto tasso di violenza in seno agli stessi popoli. Anzi, spesso si vede l’ostentazione dei simboli cristiani tra i peggiori criminali o la loro partecipazione negli appuntamenti di devozioni popolari. Non è questo – almeno non no è in genere – frutto dell’ipocrisia ma di un divorzio tra fede e vita, spesso accompagnato da una confusa e cattiva coscienza.  Frequente è anche il caso del violento che, in mezzo a queste contraddizioni, vive itinerari di vera conversione di vita. L’opera dell’evangelizzazione, nell’educazione a far riscoprire in se e negli altri l’immagine di Dio, nel convocare tutti alla comunione con Dio e tra i fratelli, nell’annunziare e rendere testimonianza operosa della carità, nell’esaltare l’autentica libertà e responsabilità della persona, nell’educare una crescita integrale delle persone, nel custodire il dono della vita e il bene della famiglia, nell’investire priorità pastorali nei giovani e nei poveri, e, infine, nel dare ragione della speranza che sempre è presente nella vita dei nostri popoli, è il contributo originale e, senza dubbio fondamentale, che la Chiesa è chiamata a offrire  per sradicare il demone della violenza dei cuori degli uomini. aprirli all’amore di Dio e farli diventare costruttori di una convivenza più giusta e pacifica, più umana.