11 Septiembre 2017 09:30 | Bischoefliches Priesterseminar Borromaeum, Kardinal-von-Galen-Saal
Intervento di Frédéric Van Leeuw
Introduzione
22 marzo 2016. C’è gente, come sempre. « Kiss and ride! » Le auto sfilano all’aeroporto. Alcune cercano di fermarsi più a lungo per prolungare i saluti. Dei turisti trascinano a fatica le loro valige pesanti accanto a uomini in abito formale e donne in tailleur. Business as usual. Tutti si riversano nelle porte a vetri, verso ciò che rappresenta per migliaia di noi la porta del mondo - il passaggio ormai obbligato verso l’altrove. Ore 7,58… Due esplosioni! I sogni vengono interrotti, l’incapacità di comprendere, lo stupore… la paura… il dolore… la morte! Sedici vite rubate, provenienti dai quattro angoli del mondo. Per molti altri, feriti nel corpo e nell’anima, testimoni, vicini, servizi di soccorso, l’incubo è solo all’inizio. La porta del mondo di colpo è diventata un inferno. E’ quello che volevano? Poco più di un’ora dopo, un’altra deflagrazione risuona a Bruxelles. Questa volta nel cuore del quartiere europeo. Anche qui, sedici innocenti perdono la vita. Anche qui sono molte le nazionalità.
Tante storie che terminano così bruscamente! Tante vite spezzate! Diciotto nazionalità in tutto tra le persone decedute. Più di quaranta tra i circa quattrocentocinquanta feriti fisici! Ma anche i danni psichici: in tutto quasi mille persone si sono dichiarate vittime. Il 22 marzo 2016, il mondo ha pianto a Bruxelles scoprendo un dolore purtroppo presente da molto tempo in molti altri angoli del pianeta.
Il tema di questa tavola rotonda è quello delle radici del terrorismo. E’ chiaro che, se esistono altre forme di terrorismo, quello che occupa tutte le menti oggi è quello che sceglie l’Islam per alibi e, in particolare, quello legato allo Stato Islamico e Al Qaeda, le due organizzazioni più o meno diffuse e inafferrabili. La parola “radicalizzazione”, che fa riferimento alle radici, è oggi sulla bocca di tutti, anche se, spesso, è piuttosto la mancanza di radici che appare evidente in molti di questi terroristi. Come sottolinea un recente rapporto francese, la comparsa del termine “radicalizzazione” dopo l’11 settembre 2001 segna un passaggio importante nella riflessione: l’uso del termine “radicalizzazione” serve a produrre una riflessione sterile sulle cause e a mettere l’accento sul processo, (…) chiamando i ricercatori «ad essere meno focalizzati sul perché diventano terroristi e più sul come vengono coinvolti nel terrorismo» . In ogni caso, le origini di questo fenomeno sono molteplici e anche peculiari di ogni individuo; a titolo personale, vorrei condividere la mia esperienza, proponendo alcune piste di riflessione.
Dove sta la felicità?
Al momento degli attentati di Bruxelles, veniva trasmessa di continuo alla radio una canzone francese. Su un motivo di blues, il cantante Christophe Maé canticchiava: «Il est où le bonheur? Dove sta la felicità?». Dopo la tragedia di Bruxelles e tutto quel che è successo da allora, soprattutto a Bamako, Nizza, Saint-Etienne-du-Rouvray, Charleroi, Istanbul, Parigi, Londra, Stoccolma o ultimamente a Barcellona e Ouagadougou, non è legittimo che ci facciamo questa domanda? I terroristi non hanno voluto attaccare la nostra felicità, la nostra qualità della vita?
Al susseguirsi delle inchieste, siamo stati costretti a riconoscere che non eravamo di fronte ad una piaga venuta da lontano: si tratta per la maggior parte di nostra gente! In Belgio il fenomeno è impressionante: dalla fine del 2012, più di quattrocento residenti belgi sono partiti per la Siria per raggiungere un gruppo considerato terroristico. Molti sono ancora lì. Alcuni ne sono tornati. Altri sono morti. Dal 2015, i tribunali belgi hanno pronunciato più di 270 condanne per terrorismo. Il fenomeno è però in costante evoluzione, perché dopo questi «Foreign Terrorist Fighters», dobbiamo confrontarci ora con gli «Home Grown Terrorist Fighters». Si tratta di persone, spesso molto giovani, che come gli autori dell’attentato di Barcellona, non sono mai state in zona jihadista. D’altronde, nei nostri paesi europei, la situazione nelle prigioni suscita inquietudine. In Belgio, quasi cinquecento individui sono tenuti sotto sorveglianza, cioè il 5% della popolazione carceraria! Non si tratta di cifre qualunque, ma spiegano bene l’ampiezza del fenomeno.
Come può succedere che tanta gente di qua, soprattutto giovani, uomini e donne, abbia potuto così rapidamente abbracciare ideali tanto distruttivi? E’ la generazione Whatsapp, Telegram, Facebook, Instagram, Youporn… Sono persone in cerca di felicità, i loro desideri troppo spesso annegati in un consumo, che lascia loro continuamente un gusto di troppo poco. E’ la generazione che ama presentare la propria vita sul web, quella del selfie in cui l’Io con la “i” maiuscola è al centro e il resto del mondo sullo sfondo. E’ la generazione della globalizzazione virtuale in cui non ci si informa più necessariamente comprando il giornale o guardando la tv, ma piuttosto digitando un po’ sullo schermo dello smartphone.
Internet e i nuovi media: insieme, ma soli
Oggi siamo ancora molto poco consapevoli del modo in cui le nuove tecnologie hanno ridisegnato il paesaggio delle nostre vite affettive e della nostra intimità. Studiando l’impatto della tecnologia sui rapporti umani, l’antropologa americana Sherry Turkle scrive: «La tecnologia ci affascina quando ciò che essa può offrirci parla alla nostra fragilità umana. E noi in effetti siamo fragili. Soffriamo di solitudine mentre l’intimità ci spaventa. Le connessioni digitali (...) ci danno l’impressione di essere circondati, senza dover subire le costrizioni dell’amicizia. La nostra vita in rete ci permette di nasconderci gli uni dagli altri, pur restando strettamente connessi.» Qui ci sono alcuni aspetti cruciali della jihad 2.0, come la chiama Gilles de Kerchove, coordinatore anti-terrorismo dell’Unione Europea.
Le eminenze grigie del terrorismo hanno in effetti capito bene come sfruttare queste debolezze, mentre le grandi religioni puntano ancora troppo sui modi tradizionali di trasmissione del sapere. Per un buon numero dei loro utilizzatori, l’avvento di Facebook e degli altri social network ha diminuito il tempo dell’incontro e dei circuiti tradizionali della socializzazione che sono la famiglia, gli amici in carne e ossa. In una società fortemente concorrenziale come la nostra, in cui la realizzazione personale è posta in cima alla piramide del successo, la pressione per diventare qualcuno è enorme e genera in realtà per molti una solitudine immensa. Il criterio sociale non è più essere amici, o essere amati, ma essere popolari. Questo bisogno di riconoscimento può a volte tradursi in un’immensa solitudine. Per un certo numero di persone, i social network sono così diventati una scappatoia per costruirsi una seconda vita, quella in cui si diventa un eroe e non più il fallito che si pensa di essere. Ci si lascia perciò isolare virtualmente dietro lo schermo. Si esibisce poi allegramente il proprio radicalismo sul proprio profilo Facebook in una gara al rialzo di estremismi. Sull’applicazione Telegram si scambiano potenziali bersagli, catalizzatori di odio, e ci si dà appuntamento con degli sconosciuti per sublimare insieme il proprio suicidio, come hanno fatto i due autori che hanno sgozzato il sacerdote Jacques Hamel à Saint-Etienne-du-Rouvray. Curando in modo molto evidente lo spettacolo mediatico per colpire, terrorizzare e suscitare nuovi candidati al suicidio.
Il contesto internazionale
Il bigbang delle tecnologie dell’informazione ha anche letteralmente portato il mondo nel salotto di casa. Ora, tutti gli avvenimenti tragici di questi ultimi anni, a partire dal 24 maggio 2014 (attentato al Museo Ebraico – primo attentato di un «returnee» in Europa) mostrano una grande influenza del contesto internazionale. Nel 2012, mentre il conflitto siriano raggiungeva il culmine, un giovane sunnita aveva attaccato con un cocktail molotov ed un’ascia una moschea sciita a Bruxelles, uccidendo il suo imam. La sua motivazione era semplice: «Massacrano donne e bambini in Siria!» E’ esattamente la stessa spiegazione che hanno subito fornito Salah Abdeslam e Mohamed Abrini, due dei kamikaze che sono sopravvissuti agli attentati di Parigi e di Bruxelles : «Siete complici di questo massacro ». Si può forse discernere qui una logica di frustrazione, o anche di umiliazione soggiacente che Dominique Moïsi descrive in ciò che chiama “la geopolitica dell’emozione” . Vi descrive il mondo musulmano in preda ad un sentimento dominante di umiliazione e l’occidente come il luogo della paura, tanto gli Stati Uniti quanto l’Europa . Questo cocktail emotivo, umiliazione da una parte e paura dall’altra, mette evidentemente i musulmani d’Europa in una situazione identitaria complicata.
Di fronte a questi argomenti, la nostra reazione è spesso incredula. Cos’ha a che fare con noi l’incendio siro-iracheno dall’altra parte del mondo? Come afferma il compianto Zygmunt Bauman, l’epoca in cui ci troviamo ha una tale dimensione cosmopolita che ogni cosa che vi accade ha un impatto sul pianeta intero e sul futuro . Ora, da noi la primavera araba, e particolarmente la guerra in Siria, sono state osservate da molto lontano con un misto di indifferenza e di ignoranza. Questa inazione ha avuto un impatto laggiù: la primavera è passata senza soluzione di continuità all’inverno di una cruenta guerra civile. Ha avuto anche un impatto enorme da noi perché noi ignoriamo o non vogliamo capire fino a che punto questi avvenimenti e queste immagini hanno toccato una frangia importante della nostra popolazione, in preda ad una ricerca di senso capace di combinare le sue origini più o meno lontane e un sentimento di emarginazione.
Il vuoto di senso: senso del vuoto?
Ora, se non sono integrati gli strumenti di lettura che permettono di guardare un’informazione o una proposta con uno sguardo critico, un linguaggio di tipo totalitario raggiunge più facilmente il proprio scopo, perché permette alla persona di risparmiarsi angosciose domande esistenziali. «Ogni letteratura totalitaria mira a commuovere, non a sviluppare il senso critico. Bisogna galvanizzare, entusiasmare le folle per farle marciare come un sol uomo. Mentre la ragione li induce a dubitare, il fuoco interiore li fa marciare e l’indignazione indica il nemico.»
Anche se la risposta da dare non è scontata, mi sembra che si debba almeno attirare l’attenzione su questa dualità tra l’emozione e lo sviluppo del senso critico. «La tragedia dell’uomo moderno non è che ignora il senso della propria vita, è che questo lo turba sempre meno», diceva Vaclav Havel. C’è qui un sintomo fondamentale che abbiamo difficoltà ad analizzare, in gran parte perché esso trova origine nel conflitto tra il religioso e la società moderna. Secondo Olivier Roy, «c’è anche un processo contemporaneo di irrigidimento fondamentalista delle religioni, dovuto alla deculturazione del religioso e al trionfo del secolarismo che non capisce più il religioso» . Senza voler entrare nel dibattito sulla radicalizzazione dell’islam o sull’islamizzazione della radicalità, quel che mi sembra tuttavia importante da capire è che se la vita dei nostri giovani è vuota di senso, questa rischia di cadere nel vuoto. Se nessuna domanda interiore viene presa sul serio, da un punto di vista spirituale o filosofico, il rischio è che il primo che sembri dare un accenno di risposta venga seguito ciecamente e in pochissimo tempo. Come dice efficacemente Philippe Van Meerbeeck: «Dio non risponde! Il padre tace! Il cielo è vuoto! Il mondo contemporaneo è disincantato. (...) Ma l’adolescente che cerca in rete una convinzione, un ideale, una qualsiasi cosa, di cui ha bisogno per crescere, che cosa ci trova?» Per alcuni, la risposta si trova nei miei dossier: l’ideale del kamikaze!
E’ il racconto della radicalizzazione folgorante della Sharia for Belgium. Era ancor prima dell’avvento dello Stato islamico. All’inizio, molti li hanno presi per degli illuminati, ma quando un ambiente è in piena crisi identitaria e culturale, quelli che ne fanno parte sono disorientati. Basta allora che appaia un “profeta” che mostri la retta via e mostri di voler ristabilire la morale. Questo salvatore da quattro soldi suscita allora un’adesione inattesa, con stupore dell’entourage che non ha visto succedere niente. E’ il percorso di Abdelhamid Abaaoud, Shakib Akrouh e Najim Laachraoui, tre dei kamikazes di Bruxelles e di Parigi . Più recentemente è anche il racconto dell’imam errante di Ripoll e degli undici giovani che lo hanno tragicamente seguito nel niente della violenza. Eppure un anno prima questi stessi giovani manifestavano contro il terrorismo dopo gli attentati di Bruxelles.
Giovani, radicalismo: pazienza o esclusione?
I giovanissimi volti dei terroristi di Barcellona ci ricordano che la grande maggioranza degli attori occidentali dell’onda terroristica attuale ha tra il 15 e i 26 anni. Colpisce la costante dell’aspirazione ad una vita nuova, un ideale cavalleresco: quello del prode cavaliere jihadista nei ragazzi, quello della principessa nelle ragazze. Come se l’adolescenza, età per eccellenza della radicalità, non avesse più fine per alcuni. E’ anche un’età in cui le domande sulla vita e sulla morte sono confuse. Un’età in cui si fanno anche molte esperienze, di cui alcune pericolose erano inaccessibili appena ieri, ma oggi sono alla portata di tutti. Chi educa questi giovani? Chi li ascolta e incanala la loro radicalità dando loro fiducia?
Le nostre società hanno paura dei radicalizzati e, di fronte a questo, la risposta più evidente sembra essere quella dell’esclusione. C’è l’esclusione provata quando si vive in una periferia urbana emarginata. C’è anche quella del mondo della scuola o del lavoro. Ora, dobbiamo essere consapevoli che l’esclusione è proprio una tappa importante del rischio di radicalizzazione, perché essa forgia l’individuo nelle sue frustrazioni. In Belgio, c’è stata qualche rara esperienza in cui, di fronte a qualcuno che di colpo aveva esternato il suo radicalismo, nonostante tutto il suo datore di lavoro ha scelto di non licenziarlo. Dopo qualche mese, queste persone si sono quasi tutte sradicalizzate da sé perché l’esclusione cercata, in modo conscio oppure no, non era arrivata.
Si può capire che questa soluzione non va da sé: il principio di precauzione non dovrebbe spingere ad escludere per sicurezza quel che appare deviante? ma questo attira l’attenzione sul fatto che la pazienza e l’attenzione possono pagare e che la risposta securitaria non deve essere automatica e ancor meno l’unica risposta, con il rischio di alimentare il fenomeno che vogliamo combattere.
Come conclusione: quali risposte?
Ultimamente, le ondate di terrorismo hanno fatto vacillare seriamente la barca delle nostre società, abituate a guardare da lontano questi uragani nel resto del mondo. Ogni giorno cadono altre vittime dell’odio, spesso nei paesi meno solidi in cui la vita è nettamente più difficile. Penso qui in particolare al Burkina-Faso, che è appena stato vittima di un attentato sanguinoso di cui si è parlato molto poco da noi.
Noi siamo stati di colpo messi di fronte a questo nemico invisibile che è il terrorista. Questo nemico che Antoine Garapon paragona al pirata dei tempi moderni : questo nemico che agisce su un elemento liquido inafferrabile e agisce talvolta dal nulla. Si tratta di una minaccia diffusa che abbiamo grande difficoltà a localizzare e spazializzare (cosa che d’altronde è un tema comune con la globalizzazione); fatto che genera una diffidenza irrazionale verso il vicino, se non della violenza.
Di fronte a questo, come sottolinea sempre Antoine Garapon, la tentazione potrebbe essere quella di rispondere al non-luogo del terrorista con il non-diritto per questi pirati dei tempi moderni, come è stato fatto a Guantanamo. E’ proprio a una tentazione simile che abbiamo resistito fino ad oggi. Non siamo stati a favore del «non-diritto». In una democrazia, qualunque sia il pericolo, il fine non giustifica i mezzi! Non parliamo di guerra, ma di Giustizia, di informazioni e di sicurezza. Non parliamo di eliminare o di neutralizzare, ma di arrestare e di giudicare. Dobbiamo pensare a osare la pazienza come alternativa all’esclusione. E’ dunque importante che ci prendiamo tutto il tempo della riflessione, come facciamo in occasione di queste magnifiche giornate sulle strade di Pace, che ci aiutano a non lasciarci condurre dall’urgenza e dalla paura.
Bisogna cambiare il nostro modo di vivere? Hannah Arendt diceva molto giustamente: «Bisogna pensare l’evento per non soccombere all’attualità». E’ quello che facciamo oggi con questa tavola rotonda. Momenti come questi sono preziosi. Nell’epoca delle post-verità («post-truth») e di «fatti alternativi», dobbiamo dar prova di grande saggezza e di grande maturità! Nel suo saggio sulle identità assassine, Amin Maalouf notava : «E’ il nostro sguardo che rinchiude spesso gli altri nelle loro appartenenze più strette». Ma aggiunge immediatamente: «Ed è anche il nostro sguardo che può liberarli» . Tocca a noi allora!
Ho iniziato questa relazione evocando la sofferenza delle vittime e terminerò con loro. Abbiamo già troppe vittime, troppe persone che soffrono e non ci eravamo abituati. Anche se avremmo voluto che queste vittime non fossero mai state colpite, esse ci hanno reinsegnato qualcosa di fondamentale: ascoltare chi soffre e soprattutto non allontanarcene. Sono convinto personalmente che è questo che dobbiamo cambiare nel nostro modo di vivere. Questo può solo rendere più umano il nostro vivere insieme. C’è forse qui una delle risposte più solide per cogliere il terrorismo alla radice, che la sola repressione è incapace di dare.