11 September 2017 09:30 | Bezirksregierung Münster, Freiherr-vom-Stein-Saal
Intervento di Laurent Ulrich
Dopo che, nel corso degli anni ’80, molti muri hanno ceduto sotto la pressione della ricerca esclusiva del massimo profitto, sono state molte le domande, le messe in discussione e le esperienze che hanno introdotto altre dimensioni, altre giustificazioni per un’economia che permetta una vita sociale più equa, più giustizia nelle relazioni tra i gruppi sociali e tra i popoli, più rettitudine nella costruzione di un’umanità in cui si tenga conto di tutti. È necessario trovare dei sistemi economici e sociali alternativi per intaccare il monopolio del pensiero e soprattutto di imperi finanziari che si credono ormai onnipotenti.
Per ciò che riguarda la presa di coscienza, lo sviluppo dell’atteggiamento della cooperazione da parte delle ONG nell’ambito umanitario e nel sostegno all’attività economica, non ha bisogno di essere sottolineato.
I principi dell’economia sociale e solidale che, in un paese come il mio rappresentano dal 10 al 12% del Prodotto Nazionale Lordo e degli impieghi – quasi l’equivalente dell’attività industriale – influiscono sull’andamento generale dell’economia, e il cambiamento di alcuni comportamenti. Questi principi in effetti manifestano che non c’è fatalità in economia e che si può, associandosi liberamente nella produzione, mirare ad un’utilità collettiva e sociale dei progetti, perseguire un profitto limitato, attraverso una gestione democratica e partecipativa, con dei finanziamenti che mescolino risorse private e risorse pubbliche. I portafogli di investimento delle grandi imprese, come quelli dei privati, incrementano i fondi delle imprese di questo settore dell’economica sociale e solidale: è questo che può essere fonte di cambiamento dei comportamenti economici.
Mohamed Yunus, per esempio, crede con certezza alla virtù della libertà di impresa e non contesta il motore del profitto ma sviluppa l’idea che la ricerca di produzione di beni sociali può essere anch’essa un motore economico efficace : si veda Grameen Danone nel Bangladesh.
Amo citare anche gli obiettivi dell’economia di comunione, cari a Chiara Lubich e al movimento dei Focolari: negli obiettivi dell’impresa, si troverà l’aiuto ai fratelli in gravi difficoltà economiche, la formazione alla “cultura del dare” e lo sviluppo dell’impresa stessa attraverso il reinvestimento. Per la verità, il numero di imprese di economia di comunione e il loro peso economico nel prodotto interno del paese in cui operano, resta modesto, ma certamente esse sono un segno, un segnale debole come si dice, in mezzo all’oceano; o in linguaggio evangelico, il lievito nella pasta, il sale della terra, una flebile luce.
E se voglio esprimere adesso i moventi profondi dei nuovi comportamenti come quelli che il Vangelo di Cristo ispira ai cristiani e anche ad altri, posso fondarmi su delle esperienze che sono segno e danno senso, che si propagano a macchia d’olio con discrezione, ma raggiungono il cuore di molti che cercano di uscire dalle chiusure e dal dominio del denaro.
Direi innanzitutto la prossimità. Cercare un mondo veramente relazionale, un mondo in cui ci si rispetti, passa attraverso il desiderio di dare la priorità alla vita e alla parola di quelli cui non la si dà abitualmente: bisogna essere capaci di partire dal vissuto espresso dalle persone emarginate. Nel solco dell’esperienza iniziata da Jean Vanier, nel 1964, con le comunità dell’Arche, si vedono nascere nelle nostre città principalmente delle piccole fraternità in cui si associano, in coabitazione, per un tempo più o meno lungo, dei giovani che iniziano la loro vita professionale con delle persone senza casa, o con genitori soli che hanno dovuto lasciare un tetto coniugale diventato insopportabile, o con persone disabili o disadattate socialmente, o con malati psichici. Si può constatare che quelli che fanno questi progetti vogliono che la loro vita non sia condotta esclusivamente da obiettivi di redditività finanziaria, ma che essa sia ispirata dal desiderio di costruire il mondo con gli altri, tutti gli altri, cominciando dai più fragili. Alcuni lo sentono subito all’entrata nella vita professionale; altri dopo dieci o quindici anni di corsa sfrenata, non ne possono più di una vita stressante, e di una pressione che svuota la loro vita di senso e di amore – sono abbastanza numerosi oggi quelli che aspirano a questo cambiamento di vita; la decisione può essere lenta da prendere, ma è necessaria. Queste domande e questi cambiamenti di vita sono altamente significativi di una ricerca di rinnovamento sociale e di giustizia.
Direi poi: la dignità della persona nella società attraverso il suo inserimento grazie al lavoro. La disoccupazione erode le società. Non può soltanto preoccupare gli economisti ed essere invitata nei dibattiti delle campagne elettorali: la disoccupazione aumenta in molti paesi del mondo, portando la cifra a più di 200 milioni di persone (equivalente della popolazione del Brasile e del Bangladesh). Dobbiamo credere che non si siano ancora esplorate tutte le soluzioni per rimettere al lavoro le persone che ne sono state allontanate, affinché esse ritrovino la dignità attraverso il lavoro: è necessario che «si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti» . La paura del futuro, tradotta dall’insufficienza degli investimenti, è chiaramente una importante ragione di questo aumento.
C’è anche una mancanza nel percepire che il lavoro costituisce una grande parte nella valorizzazione delle persone, nell’affermazione della loro dignità. Il pensiero cristiano in materia sociale afferma che il lavoro assicura non soltanto la sussistenza di una persona e della sua famiglia, ma dona anche a ciascuno il proprio posto nella costruzione sociale, fa partecipare al proprio sviluppo rendendosi utili. Permette a ciascuno di valorizzarsi ai propri occhi rivelando a sé stesso che si è capace di agire con gli altri e per gli altri. Il lavoro è dunque il modo privilegiato di costruzione di sé stessi. La lotta per ridare ai disoccupati del mondo l’acceso al lavoro è perciò una priorità che non è puramente economica, ma che esige una vera evoluzione di mentalità: lavorare contribuisce alla dignità umana e permettere a ciascuno di lavorare non è soltanto responsabilità del datore di lavoro diretto (quello che assume), ma anche di colui che Giovanni Paolo II ha chiamato il “datore di lavoro indiretto”: “sia le persone sia le istituzioni di vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento, stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali determinano tutto il sistema socio-economico o da esso risultano” .
Sono perciò le intere società che hanno bisogno di evolvere e di considerare anche la priorità del lavoro sul capitale. Dobbiamo abbandonare le illusioni, il fascino del potere e della mania di grandezza che generano le realizzazioni tecnologiche di oggi. Accettiamo di lavorare per trasformare le mentalità globali. È certamente necessario ritrovare l’equilibrio e ricordarsi che all’origine di ogni trasformazione delle ricchezze naturali in beni adattati alla vita dell’uomo si trova il suo lavoro, la sua inventiva, la sua capacità creatrice. Ristabilire la dignità del lavoro umano passa anche attraverso questa affermazione che il lavoro ha la priorità sul capitale. Tutta la tradizione cristiana invita a questo: il Creatore del libro della Genesi è il primo che lavora. Egli invita a lavorare con Lui e a ringraziarlo per la sua opera.
La tradizione cristiana e cattolica cui mi riferisco certo invita anche a correggere un pensiero divenuto spontaneo nella testa della maggior parte delle persone. Parlo sempre delle necessarie trasformazioni di mentalità: resta opportuno correggere l’affermazione corrente secondo cui un’impresa è fatta per fare profitto! È come se fosse divenuto ovvio che le imprese sono prima di tutto fatte per il profitto, per guadagnare denaro. È chiaro che esse devono guadagnare per non scomparire e dunque fallire nel produrre beni utili agli uomini. Ma rimettiamo ogni cosa al suo posto. Il profitto resta uno strumento e un indicatore del buon andamento di un’azienda . I fini di un’impresa sono altri: si tratta di soddisfare le domande dei clienti, di permettere ai propri impiegati di vivere degnamente, e di realizzarsi personalmente attraverso il proprio lavoro e i rapporti sociali che esso genera, di remunerare in maniera adatta i fornitori, in breve di entrare in molteplici giochi di relazioni sociali per contribuire allo sviluppo di una società portandole dei beni utili. Dei giuristi legati ai movimenti degli Imprenditori e Dirigenti cristiani riflettono oggi sul modo di tradurre in nuove definizioni lo statuto sociale dell’impresa, come un’organizzazione che miri a produrre per l’interesse generale o il bene comune, e in cui il profitto è uno strumento.
Si tratta inoltre di guardare il futuro in cui si incontrano e si mischiano i popoli della terra. Si evoca oggi la crisi migratoria, come se fosse un fatto nuovo. La migrazione è una realtà di ogni epoca. Sotto l’effetto delle precarietà economiche, sotto l’effetto dei poteri violenti e ingiusti, e anche sotto l’effetto del desiderio di conquista del mondo, sotto l’effetto delle intemperie, e oramai del cambiamento climatico, bisogna pensare la migrazione. Era una costante dell’antico Medio Oriente, di cui dà testimonianza la storia biblica. Così fu scoperto il Nuovo Mondo, così gli uomini sono fuggiti dalle dittature del 20° secolo. È tradotto nel codice morale biblico. È nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo. È un dovere evangelico, come lo dice spesso Papa Francesco, e lo ha detto ancora recentemente. Si, la tradizione cattolica ricorda che gli Stati possono regolare il flusso in vista di una migliore protezione e per una accoglienza degna, ma non potranno mai bloccarlo. Si legge qua e là anche da penne cristiane, che gli stati non hanno un dovere morale, che il loro unico dovere è quello di proteggere i cittadini: no, la morale e la generosità non sono obblighi solamente individuali. Gli Stati non hanno solo la funzione di assicurare gli egoismi nazionali, ma proprio, nella complessità delle relazioni interne ed esterne, di proteggere e promuovere tutti gli uomini. La sicurezza e la protezione dei più deboli sono una garanzia per la sicurezza delle nazioni.
Concludo con un appello a mettere in evidenza la gratuità delle relazioni sociali anche nella sfera del lavoro. Lo faccio in seguito a Papa Benedetto XVI che nella sua Enciclica Caritas in Veritate fa appello a questo principio della gratuità. Non si tratta di ignorare il mercato e i principi della giustizia commutativa che presiedono ai giusti scambi; ma piuttosto di ricordare che senza la partecipazione volontaria e l’impegno libero aldilà delle regole e della remunerazione, non si riuscirà a costruire con gli altri una società fraterna, una società della fiducia. Le imprese stesse, come tutte le attività umane, non possono vivere veramente senza questa dimensione del dono della grazia, della benevolenza, della parte di gratuità che comporta ogni impegno, anche professionale, e remunerato. I lavoratori di ogni livello, anche nei compiti più umili, sanno amare il loro lavoro dove si esprime la loro dignità. Bisogna che questo non passi ancora completamente inosservato! Qui c’è ancora una mentalità da sviluppare e coltivare…..