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Donatella Di Cesare

Filosofa, Sapienza Università di Roma, Italia
 biografia
Sappiamo bene che il nostro è un mondo dove l’io domina sovrano. È un io pieno di sé, chiuso in sé stesso, che teme tutto ciò che è fuori. Vive, o meglio, sopravvive giorno per giorno, senza progetti per il futuro, quasi da sonnambulo, in uno spazio attraversato da immagini fantasmatiche, dove tutto sembra possibile e nulla lo è. Questo io non fa che ripetere «ma io». Questo io ripiegato su sé stesso non è il vecchio individualista della modernità, ma un io che è sprofondato narcisisticamente al proprio interno. Potrebbe salvarlo dal naufragio solo l’altro, a cui, però, ha chiuso la porta.
 
L’altro è infatti già stato espulso, respinto, bandito. Grazie a questa violenza onnipervasiva la repressione si muta in depressione – uno dei grandi sintomi di questo tempo. Per l’io che vive nello spazio informe dell’ipercomunicazione e dell’iperconsumo, l’altro non è più la leva della sua esistenza – che infatti è una sconsolata in-sistenza su sé stesso. Questo io competitivo, e già quasi belligerante, non sa più dire «tu», e non sa più dove sia il tu. 
 
Viviamo dunque in uno scenario attraversato dalla fobia per l’esterno, per tutto ciò che è lì fuori, dove l’altro è stato respinto politicamente prima ancora che esistenzialmente. Non si tratta dunque solo di scelta singola, di comportamento individuale. Ma qui i calcoli non hanno funzionato: non si è previsto che la negazione dell’altro sarebbe stata anche autonegazione. Così, nella zona dell’indifferenza, circondata dalle periferie della miseria, dai sobborghi dello sconforto, dai teatri di guerra, si è messa in moto una spirale di autodistruttività. 
 
La via per uscire da ciò è quella che attraverso il tu porta al noi della comunità. Ma che vuol die la comunità del noi? Si potrebbero prendere queste mie parole nel migliore dei casi per un altruismo ingenuo, che non fa i conti con la realtà. Nel peggiore si potrebbe credere che con comunità si vogliano magari risuscitare vecchi fantasmi. Né l’uno né l’altro.
 
Il modello di comunità in cui noi oggi siamo immersi è purtroppo permeato da una logica immunitaria. La stessa democrazia è fondata su ciò: sul principio noli me tangere, “non mi toccare”. È tutto quello che l’io del cittadino chiede: non partecipazione, bensì solo protezione, sicurezza. Si riduce la comunità democratica a un sistema d’immunità. Godere della democrazia non vuol dire altro che beneficiare in maniera sempre più esclusiva di diritti, garanzie, difese. E spesso in questa «battaglia dei diritti» si crede di scorgere il fronte più avanzato del progresso. 
 
Ma che avviene lì fuori? Oltre i confini? La condizione d’immunità riservata agli uni, i protetti, i preservati, i garantiti, viene negata agli altri, gli esposti, i reietti, gli abbandonati. Il divario si amplia ogni giorno. Nello sterminato hinterland, dove sopravvivono i superflui, internati nei campi, parcheggiati nei vuoti urbani, scartati come rifiuti, non arriva il sistema di garanzie e assicurazioni. Quest’altra umanità – ma saranno poi «umani»? – è inesorabilmente consegnata a violenze di ogni genere, a guerre, fame, malattie, nuove schiavitù – e una perversa necropolitica che lascia morire i superflui. 
 
Già Hannah Arendt aveva lanciato un monito contro questo doppio binario tra persone e non-persone ben collaudato dall’esperienza totalitaria. E aveva previsto che i superflui, la “schiuma” della terra fluttuante tra i confini nazionali, avrebbero finito per essere ridotti a una vita nuda, in cui sarebbe stato impossibile conservare persino l’umanità. L’indice era puntato contro il naufragio dei diritti umani. Nel mondo attuale che, cancellando con un colpo di spugna la memoria, ha creduto di separarsi dal passato totalitario, il doppio binario è diventato un’ovvia realtà. 
 
Ma quali sono le ripercussioni anche all’interno? Dove c’è immunità viene meno la comunità. Essere immuni vuol dire – anche etimologicamente – essere esenti, dispensati da obblighi, vincoli. Il contrario di immune è comune. Individuale e collettivo sono invece le due facce speculari del regime immunitario. Comune indica la condivisione dell’impegno reciproco. Non si tratta in nessun modo di una fusione. Far parte di una comunità implica essere legati, vincolati gli uni agli altri, costantemente esposti, sempre vulnerabili.
 
Ecco perché la comunità è costitutivamente aperta; non può presentarsi come una fortezza identica a sé, chiusa, difesa, protetta, fondata solo sul legame della paura. In questi ultimi anni è avvenuto un paradossale equivoco per cui si scambia la comunità con il suo opposto, l’immunità. È la deriva della nostra democrazia: il noi immunitario della paura.  
 
Una politica immunitaria, che ha bisogno di frontiere, respinge sempre e comunque l’alterità. Tutto ciò che viene da fuori riaccende la paura. Lo straniero è l’intruso all’interno, il nemico all’esterno. L’immigrazione è apparsa perciò la minaccia più inquietante. Ma oggi sappiamo anche che si riaffaccia il nemico nel senso più tradizionale, nel cuore dell’Europa. Risuona il “voi” bellico. Diceva un grande filosofo ebreo-tedesco Franz Rosenzweig, che quando il noi esclude, allora si erge il terribile “voi”.  Nell’Europa del XXI secolo, reduce dai crimini più efferati, non vogliamo una necropolitica immunitaria che dividerà sempre di più e porterà a nuovi conflitti. Vogliamo invece un’Europa all’altezza del compito per cui è nata: essere una comunità di comunità, favorire la coabitazione tra i popoli. Il che poi vuol dire costruire la pace.