Questi giorni raccolgono a Roma leader e credenti di varie religioni con umanisti laici, non nel chiuso di un laboratorio, ma di fronte agli scenari del mondo, davanti alla guerra. La guerra è infatti tornata sul suolo europeo con l’invasione russa della martoriata Ucraina e tuttora non si vede una via d’uscita. Del resto, questo nostro mondo globale, per configurazione, pluralità di attori e potenza degli armamenti, favorisce che le guerre si eternizzino senza finire, com’è oggi in Siria, dove ci sono ragazzi la cui giovane vita ha visto solo il tempo di guerra.
Bisogna ascoltare il “grido della pace” che viene da varie parti del mondo! Questi sono anche giorni di preghiera e spiritualità. La preghiera è sorella del grido di dolore di chi soffre guerra e povertà. In ogni grido e invocazione è espressa la richiesta di un futuro più umano.
L’incontro di questi giorni è frutto di una storia che vorrei evocare brevemente. Veniamo da lontano. Come Comunità di Sant’Egidio, nata nel 1968 tra giovani, poveri e periferie. Come amici del dialogo, veniamo dal grande secolo che fu il Novecento, ma anche tempo di terribili conflitti. La smemoratezza eccitata del presente non è mai stata nostra. Scriveva Hannah Arendt: “memoria e profondità sono la stessa cosa, o meglio, l’uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria”. La profondità è una risorsa di libertà di fronte ai prepotenti semplificatori del nostro tempo, invece in sé tanto complesso, anzi inspiegabile con le semplificazioni.
Le religioni non sono fossili, che la modernità e il pensare scientifico alla fine seppellirà, come credeva tanto pensiero pubblico occidentale. Sono organismi vivi: raccolgono gli aneliti di comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone. Ho visto la preghiera dei disperati in luoghi inumani o nei viaggi terribili dei profughi. Le religioni non si chiudono nella bolla come parecchie istituzioni. Restano in genere sulla terra e tra le case: la sinagoga, la chiesa, la moschea, il tempio. Per questo, se si vuole umiliare l’anima di un popolo, si distruggono i luoghi sacri e si violano le donne.
Siamo stati testimoni di una svolta: l’incontro del 1986 ad Assisi, la patria di San Francesco. Allora lì, Giovanni Paolo II propose una visione: le religioni, non l’una contro l’altra, ma insieme e che pregano per la pace. Una visione che superava l’ignoranza reciproca e i conflitti tra credenti. Era ancora il tempo della guerra fredda. Giovanni Paolo II guardò oltre e intuì che ogni religione, quando tende alla pace, dà il meglio di sé.
Assisi nel 1986 fu per noi una visione ispiratrice. Un messaggio che preparava la globalizzazione nella prospettiva di un destino comune nella diversità. A questa visione abbiamo cercato di essere fedeli. La esprimo con le parole dell'antropologa francese Germaine Tillion, scampata dal lager nazista: "Tutti parenti, tutti differenti".
Abbiamo continuato, per trentacinque anni, fino a qui, la strada del dialogo con incontri, conoscenza, creando una rete nell’amicizia e nello scambio, facendo tappa in varie parti del mondo, riunendo figure spirituali sapienti, cercatori di pace, animi inquieti, laici pensosi. Sempre in confronto con la realtà storica, umana e politica del momento. Il dialogo, anche quando avviene sull’Eterno, accade nella storia concreta. In questo solco le parole sono importanti, ma pure i fatti: ad esempio, è nata la pace in Mozambico, dopo una guerra che ha provocato un milione di morti, negoziata trent’anni fa, nel 1992, a Roma, a Sant’Egidio.
La caduta del Muro e la globalizzazione aprivano una stagione in cui realizzare le speranze del Novecento. Tutto –dall’economia, alla finanza, ai media- si unificava, inaugurando una bella epoca globale. Si trascurava in buona parte di negoziare con la globalizzazione vincente, assegnandole spesso il ruolo di provvidenza.
Le religioni sono “le globalizzatrici originarie” -scrive Miroslav Volf-; professano valori universali e credono in un’unica famiglia umana. La globalizzazione resta una grande occasione per chi punta sul dialogo. Ma bisogna lavorarci! Condividiamo con convinzione quanto lei, Signor Presidente Macron, disse nel 2018 ai Bernardins: “Non c’è nulla di più urgente oggi che accrescere la conoscenza reciproca dei popoli, delle culture e delle religioni”.
Infatti il nuovo gigante globale ha bisogno d’anima. L’anima cresce nel dialogo, nell’amicizia, nella preghiera. “Chi è veramente sapiente?” -si chiedeva un discepolo di rabbi Akivà nel secondo secolo. Rispondeva: “Chi impara da ogni uomo”. Dialogo e ascolto sono la struttura fondamentale delle tradizioni religiose. Dialogo con Dio: la preghiera; con i testi sacri; dialogo tra tutti, anche perché -come scriveva il poeta russo con origini ucraine, Evtušenko: “non esistono al mondo uomini non interessanti”. Papa Francesco, visitando Sant'Egidio anni fa, ha esclamato con preoccupazione: "Il mondo soffoca senza dialogo".
Alcune comunità religiose, però, si sono chiuse nel separatismo dalla storia comune con autosufficienza. Del resto i passi di religioni antiche sono talvolta cauti. Alcuni settori religiosi hanno sacralizzato le identità nazionali. Altri, purtroppo, hanno perduto l’anima con la violenza, il terrorismo e il radicalismo, allontanandosi dalla religione, pur presentandosi invece come autentica religione. Questo è un dramma per tutti.
Il mondo globale ha portato la pace, ma anche ha prodotto tanta guerra. Scompariva la generazione della seconda guerra mondiale e della Shoah in un mondo facile all’oblio. Negli anni, è cresciuta l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia. Si è andato smorzando quel patrimonio di tensioni, ereditate dal Novecento che tendevano a unire i destini oltre i confini. Giorgio La Pira, l’iniziatore dei dialoghi mediterranei, le chiamava “tensioni unitive”: tensioni alla pace, l’ecumenismo, la responsabilità verso i mondi più poveri, la cooperazione per una giustizia planetaria. Questo avviene oggi, proprio mentre la crisi della terra rivela, con un’evidenza indiscutibile, che abbiamo un solo destino: “tutti sulla stessa barca” -ha detto papa Francesco durante la pandemia.
“Tutti sulla stessa barca”. Il maliano Lassana Bathily, testimone dei fatti terroristici di Parigi del 2015 nel supermercato kosher, quando sedicenti musulmani uccisero ebrei ed altri, salvò alcuni ebrei dai terroristi: "Sì, ho aiutato gli ebrei -disse-. Siamo tutti fratelli. Non è questione di ebrei, cristiani e musulmani, siamo tutti sulla stessa barca". Dall’immigrato maliano al papa di Roma, la coscienza del destino comune percorre i mondi religiosi e la gente.
In questa coscienza sono le risorse per un’immaginazione alternativa che disegni una visione di pace a fronte di pensieri stanchi e rassegnati. Senza immaginazione alternativa, restiamo prigionieri di un presente senza speranza, destinati a subire l’iniziativa degli altri o la loro prepotenza. Utopia? Sogno? L’immaginazione è una visione offerta a tutti. Nella memoria, troviamo elementi ed energie per una visione di pace. Una politica realista ha bisogno di una visione più ampia alla luce della quale muoversi. La speranza comincia con il rifiuto di una lettura scontata del presente, senza guardare oltre. Il vero realismo ha bisogno di questa visione. Lei, Signor Presidente Mattarella, ha detto recentemente ad Assisi: “Non ci arrendiamo alla logica di guerra, che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione”.
Tutto questo però non è così evidente. I sazi non sanno sognare. I paurosi temono sogni e visioni. Sazietà e paura spingono a moltiplicare le difese, a securizzare i propri spazi, a fortificare le identità, ad attaccare arbitrariamente, al parlarsi duro, a guerre senza fine.
Questa situazione spinge a immaginare visioni di pace con più audacia. Un’immaginazione profetica o poetica, insomma una visione, è proprio necessaria in un tempo stretto tra poche alternative. Quando le menti e i cuori si aprono, nascono strade per rispondere al grido della pace. Vorrei concludere con un poeta, Muhammed Iqbal, detto il “padre spirituale del Pakistan”, tratte da una poesia Il Destino del 1923:
“Abbi dunque l’ardire di crescere, osa! Non è così stretto lo spazio!
O uomo di Dio! Non è stretto lo spazio del regno dei cieli!”.
No, lo spazio è più grande di quello che crediamo: la realtà è più vasta delle rappresentazioni dei realisti, degli spaventati, degli aggressivi.