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Daniel Deckers

Giornalista di "Frankfurter Allgemeine Zeitung", Germania
 biografia

Un venerdì del marzo 2019, Brenton Tarrant ha attaccato una moschea a Christchurch, Nuova Zelanda. Il 28enne australiano ha ucciso più di 50 fedeli e ne ha feriti altrettanti. 

 
Di fronte a questo gesto lo shock nel mondo è stato enorme - successivamente. Ma l’assassino ha anche ricevuto supporto mondiale in tempo reale. Tarrant ha filmato l’omicidio delle sue vittime con una telecamera montata sull’elmetto ed ha trasmesso il video, di 16 minuti e 55 secondi, live in internet.  Circa 200 persone hanno visto la trasmissione in diretta, e alcuni hanno pubblicato contemporaneamente messaggi d’odio di estrema destra.  
 
Ci sono voluti 32 minuti dall’inizio dell’attacco e 12 minuti dal termine del massacro, prima che dipendenti di Facebook cancellassero il video. A quel punto molti nel mondo avevano visto la strage, e molti avevano fatto copie di quel materiale. 
 
Nelle successive 48 ore il solo Facebook ha dovuto cancellare più di 1.5 milioni di versioni del filmato. Il materiale circolerà probabilmente per sempre in rete. 
 
Che cosa ha a che vedere questo fatto con l’argomento del nostro panel? 
 
Mentre mi preparavo a questo evento mi sono ricordato l’incontro per la pace della Comunità di Sant’Egidio che ha avuto luogo quasi esattamente cinque anni fa ad Anversa. Anche lì c’era un panel sul ruolo dei cosiddetti social-media e il conflitto. Poco prima i terroristi dell’Isis avevano filmato la decapitazione di due ostaggi statunitensi e diffuso il video nel mondo con l’ausilio di diverse piattaforme internet.
 
L’orrore allora era stato maggiore rispetto a dopo gli avvenimenti di Christchurch, ma anche l’entusiasmo mondiale, pur se dal versante opposto. Ad agosto e settembre del 2014 gli islamisti hanno massacrato due uomini bianchi (avrebbero dovuto essere di più), a marzo 2019 un uomo bianco ha massacrato in maniera indiscriminata dei musulmani. 
 
Ma vorrei andare ancora più indietro nel tempo. Mi ricordo anche l’incontro per la pace a Roma nel 2013: “Descrivere il mondo – informazione e pace" era il titolo di un panel che già allora affrontava il ruolo dei mezzi di informazione tradizionali e nuovi nel processo di una realtà che si apriva. 
 
O ancora all’incontro di Monaco nel 2011: "Religione e dialogo al tempo di Facebook, Twitter ecc.”
 
Da un lato bisogna essere grati alla Comunità di Sant’Egidio per avere ripetutamente sollevato la questione dei ruoli dei nuovi e vecchi media nella coesistenza pacifica di persone e società. 
 
Ma dovrebbe anche essere un’espressione di gratitudine non chiudere gli occhi davanti al fatto che il ruolo dei cosiddetti social media in particolare è molto più funesto di quanto io o voi abbiate probabilmente mai immaginato. 
 
Prima di procedere devo fare una confessione personale: ho creato solo recentemente un account Facebook, abbiamo cancellato il gruppo chat di famiglia su Whatsapp - dopo che Whatsapp è stato acquistato da Facebook - non sono su Twitter, non ho un account Instagram o  Snapchat e non uso Google come principale motore di ricerca. 
 
Se pensate che non sia qualificato per dire la mia opinione su questo argomento, potreste avere ragione. Ma evitando queste piattaforme sto principalmente usando il mio diritto di “autodeterminazione informativa” - un diritto umano che i giganti della tecnologia continuano a violare. I dati trovano sempre il modo per andare dove non dovrebbero, e vengono ripetutamente usati in maniera sbagliata per scopi per cui non avete mai dato il permesso quando avete aderito ai termini e condizioni di questi quasi monopolisti.  
 
In altre parole: anche se usate le precauzioni più sofisticate, dando il vostro consenso diventate inevitabilmente uno dei miliardi di oggetti del “capitalismo di sorveglianza”, che vi offre un business estremamente attraente ma al tempo stesso altamente perverso: in cambio di possibilità di comunicazione quasi illimitate e di spazi gratuiti, dovete fornire dati estremamente personali. 
 
In regimi autocratici come in Russia o Cina, vi state esponendo ad un apparato di sorveglianza statale che non avrebbe potuto essere stato pensato in modo più perfetto. 
 
Nelle società occidentali – e queste sono le sole di cui vorrei parlare – le cose sono più innocue. Diventate il bersaglio non solo di società che usano i “Big Data” per offrire beni e servizi materiali: gli attori politici usano lo stesso metodo per influenzare l’opinione pubblica. Questo dà ai "big data" una caratteristica che non solo danneggia i diritti inalienabili di ogni individuo. Le compagnie tecnologiche forniscono ai nemici delle società liberali gli strumenti per distruggere queste stesse società.   
L’esempio che più colpisce è il ruolo dei dati di circa 87 milioni di utenti Facebook esaminati da Cambridge Analytica nel 2016. Con l’aiuto di questi dati gli elettori nella campagna elettorale per il presidente americano hanno ricevuto pubblicità e messaggi politici specifici che avrebbero dovuto farli diventare elettori di Trump. 
 
Chi stava dietro questa pubblicità era raramente riconoscibile dai destinatari. Oggi sappiamo che, tra gli altri, il governo russo ha usato i social media per influenzare la campagna elettorale e far salire al potere un presidente potenzialmente amico della Russia. Il risultato è ben noto: Trump non è (ancora) un amico di Wladimir Putin (come Bibi Netanyahu) e non ha ancora fatto grandi affari con l’autocrate russo. Ma Trump è il primo presidente degli Stati Uniti che deve il suo potere ai social media. 
 
Alcune cose sono cambiate dal 2016. Si stanno sviluppando degli algoritmi per impedire che le “fake news” vengano diffuse; in paesi dove i parlamenti hanno messo per legge o con misure coercitive uno stop alla distribuzione senza limiti di contenuti criminali, centinaia se non migliaia di persone stanno lavorando per rimuovere materiale contrario alla legislazione attuale. Questo è certamente un passo nella giusta direzione. Lo stesso vale per la creazione di una legge europea più severa sulla protezione dei dati e l’imposizione di sanzioni alle società che non si adeguano alle leggi del “capitalismo di sorveglianza”. 
 
Tuttavia la multa di cinque miliardi di dollari che un’agenzia governativa statunitense ha imposto nel 2019 nel caso di Cambridge Analytica è troppo poco per colpire Facebook. Non è nemmeno il dieci percento del profitto che Facebook fa in appena un anno. Dopo l’imposizione dell’ammenda i prezzi delle azioni della società sono saliti rapidamente. 
 
Più o meno la stessa cosa vale per Google. La settimana scorsa si è saputo che Google aveva ricevuto una multa di 170 milioni di dollari da parte della Federal Trade Commission per avere raccolto illegalmente i dati dei bambini su YouTube ed averne tratto un profitto. La società non ha esitato a promettere che avrebbe fatto dei cambiamenti in modo da proteggere la privacy dei bambini su YouTube, poiché i legislatori hanno detto che il sito aveva consapevolmente ed illegalmente raccolto informazioni personali dai minorenni ed usato quei dati per trarne profitto, bersagliandoli di pubblicità. 
 
Ma sarebbe saggio fidarsi di una società la cui esistenza dipende dal monitorare dati nella massima misura possibile e farne uso? Così come alcune istituzioni finanziarie sono troppo grandi per fallire, i giganti della tecnologia sono troppo grandi per essere controllati. 
 
Naturalmente, ad ogni scandalo sui dati scoperto dalle autorità governative hanno fatto seguito scuse prolisse e promesse di miglioramento: non più flusso di dati non autorizzati, gli algoritmi che metteranno un filtro al discorso dell’odio e ad altre comunicazioni indesiderate in modo tale che non entrino nemmeno in rete, gli account che saranno bloccati nel caso violino regole stabilite dai governi o dalla società stessa.   
 
Non sono sicuro se tutte queste misure saranno sufficienti per costringere i giganti della tecnologia a rispettare la legge - per non parlare delle istanze morali. La mia conoscenza tecnologica non è certo sufficiente per immaginare come i filtri ed altri strumenti possano funzionare per distinguere tra le forme di comunicazione permesse e quelle proibite. Molto di quello che troviamo come “incitamento all’odio”, a causa dei programmi di riconoscimento parole può anche diventare: comunicazione sull’”incitamento all’odio”.
 
Piuttosto, vorrei guidare i vostri pensieri in un’altra direzione. Nel termine “capitalismo di sorveglianza” è il termine sorveglianza che in genere attrae più attenzione. Vorrei invece dirigere la vostra attenzione sul termine capitalismo ed incoraggiarvi a mettere in pratica ogni iniziativa per battere i social media con le vostre stesse armi.
 
 
Il capitale che i social media accumulano sono i vostri dati. Perché non privarli del capitale? Non riuscite ad immaginarvi una piattaforma come Facebook che non sia orientata al profitto, bensì non-profit? 
 
Pensare in questo modo è naturalmente terribilmente ingenuo, perché le offerte delle piattaforme convenzionali sono quasi infinite. Ma qui è proprio che mi viene in mente una seconda idea: la diminuzione o forse la distruzione delle piattaforme, perché il loro potere assomiglia a quello di un monopolio o perlomeno di un oligopolio. Nella tradizione del pensiero sociale cattolico che risale al Medio Evo, la lotta contro i monopoli è sempre stata una delle questioni più importanti: da allora riguarda tutto la protezione dei cittadini dalle forme di sfruttamento. 
 
Perché il capitalismo si può battere solo con le proprie armi, queste dovrebbero essere usate in modo molto più mirato di prima. Per me sarebbe molto interessante se i governi alzassero i costi per chi viola la legge, in modo da non farne più valere la pena. 
 
Le ammende come quelle che abbiamo visto finora sono ridicolmente basse rispetto al capitale complessivo dei giganti tecnologici. 
 
Come punto di partenza bisognerebbe prendere il modello di business come tale. Se Facebook, Google o Instagram dovessero essere inaccessibili per un giorno, una settimana o un mese perché, ancora una volta, c’è stato un passaggio di dati senza permesso, o perché non è stata presa nessuna precauzione per impedire a video di estremisti di destra o di propaganda islamista di circolare liberamente nella rete per ore, allora gli utenti troverebbero molto presto un posto dove le loro comunicazioni potrebbero funzionare indisturbate.
 
Per riassumere: le autorità che regolano gli stati o le organizzazioni sopranazionali come l’UE dovrebbero avere il diritto di proibire le operazioni di una società (non di internet) per periodi di tempo più o meno lunghi. 
 
 
Proprio come succede nella vita reale con le società i cui prodotti o metodi di produzione possono essere tossici per voi o per quelli a voi cari, o per la coesistenza delle persone – come ad esempio il filmato live del massacro a Christchurch, in Nuova Zelanda.