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Adriana Gulotta

Coordinatrice delle Scuole della Pace
 biografia
Alcune immagini hanno colpito, negli ultimi tempi, l’immaginario collettivo: bambini colpiti dalla guerra come il piccolo siriano ferito alla testa e fotografato in un’ambulanza con gli occhi persi nel vuoto o quello, coperto di detriti, tra le braccia del padre che scappa dai bombardamenti in una via di Aleppo distrutta dalle bombe. Quei bambini, immersi nella guerra, chiedono la pace. Oggi si parla di forever war, guerre perenni, senza fine, in cui nessuno vince e nessuno perde. Pezzi di mondo abbandonati per anni al loro destino di dolore. 
 
Quei bambini chiedono la pace, ma gli altri? Cosa suscitano quelle immagini di guerra moltiplicate dai media? Chi vede scorrere quelle immagini dinanzi ai propri occhi? Sono anche altri bambini, europei, dove la guerra non c’è. Sui loro occhi quelle immagini sembrano scorrere senza suscitare reazioni, oppure si cerca di non fargliele vedere.
 
Si tratta di bambini e ragazzi che vivono immersi in quel clima che Umberto Galimberti ha definito di “nichilismo attivo”. Un tempo di povertà estrema, ma non di beni di consumo, quanto di valori; una sorta di crisi “culturale” perché il futuro che la nostra cultura prospetta ai giovani non è una promessa, come era per i loro padri, ma è sentito come una minaccia, qualcosa di imprevedibile a cui non si riesce a far fronte.
 
In questa condizione culturale -definita da alcuni un’“epoca delle passioni tristi”-, i giovani sono vittime di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, ma spesso anche di senso e di legami affettivi. Frequente è il ricorso alle terapie farmacologiche e psicologiche che curano le sofferenze dell’individuo. Ma il male è fuori, è nell’ambiente culturale, in cui ci si trova a vivere, in un deserto di insensatezza in cui il niente si profila all’orizzonte. “Niente motiva o sollecita, attrae o affascina –sostiene Galimberti- niente fa uscire da quel presente assoluto che i giovani vivono con la massima intensità cercando il rischio, non perché procuri gioia, ma per seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa quando ciò che si profila all’orizzonte è un deserto”.
 
Se la cultura non dà un senso a ciò che si vive, manca il fine e il futuro si mostra come un paesaggio imprevedibile che paralizza l’iniziativa e spegne l’entusiasmo. Manca la risposta al “perché” e ci si sente rifiutati in un mondo che guarda ai giovani non come una risorsa ma come un problema, che li induce a dormire di giorno e a vivere di notte e a sperimentare la loro assoluta irrilevanza. Cercano allora di esistere, inseguendo passioni forti, mostrando coraggio e audacia, che da adolescenti finiscono per esprimere con gesti temerari e autolesionisti, mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza. Ormai è frequente leggere sui giornali vicende di giovanissimi morti per mostrare in un selfie il proprio coraggio. Ragazzi stesi sulle rotaie dei treni, giovani sospesi su cornicioni, ragazzini soffocati con corde per una tragica prova di resistenza… Il web è un amplificatore formidabile di questo desiderio. Sono casi eccezionali? Questo fenomeno è molto esteso e ne veniamo a conoscenza solo quando la sfida estrema porta alla morte. Sono centinaia gli episodi che –per fortuna- non hanno gli stessi esiti amari. 
 
Sono nativi digitali, bambini e ragazzi cresciuti con internet: curvi, già dall’età di 7-8 anni, sui loro smartphone, vivono con quelle “protesi tecnologiche”, come sono state definite, di cui sembra non possano fare a meno. Le immagini che scorrono davanti ai loro occhi, sui tanti device a loro disposizione, sembrano non toccarli. La violenza e la guerra sono affascinanti, il conflitto, l’odio, l’insulto fanno parte della normalità. 
 
Il loro pensiero è condizionato dai social e il loro modo di fare esperienza è alterato: sentono vicino il lontano, mentre allontanano il vicino. Sentendosi in contatto con il mondo intero, restringono la loro esistenza a una piccola rete di contatti che li chiude in una bolla. Si espongono in una vetrina virtuale allo sguardo degli altri, in una sorta di “monologo collettivo che fa scrivere a ciascuno le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque”. In questa vetrina virtuale mostrano ciò che gli altri vorrebbero che vedessero e, senza aspirazione al miglioramento, senza fatica, come in un ritocco di fotoshop, pensano di aver superato così lo scarto tra reale e ideale. E quando la realtà si mostra per quello che è, senza alcuna idealità, non riescono a superare il trauma.
 
Il nichilismo, allora, sembra, nelle vite vuote di tanti giovani, un ospite sempre più familiare. E la guerra, in questo clima, sembra un gioco in cui i confini con la realtà si confondono. La morte appare, come nei videogiochi, un elemento transitorio, da cui ci si può rialzare senza conseguenze. Altre volte la violenza risulta il modo più efficace per affermarsi. C’è nei giovani un desiderio di essere protagonisti. E, specie se si tratta di giovani marginali e periferici, la ribalta è cercata per scaricare l’odio accumulato contro la società. La violenza diviene un’esperienza necessaria, una ricerca di forza che sembra non conoscere limiti. 
 
Come allora stupirsi se dinanzi alle immagini di guerra questi giovani non esprimono alcuna domanda di pace, né si fermano ad ascoltarla? 
 
Sembrano privi di sentimenti. Ma è noto che il sentimento, a differenza dell’emozione e dell’impulso (stadio a cui si fermano spesso i bulli), non è dato per natura, ma si acquisisce con la cultura, come ci insegna la storia: dai popoli primitivi che raccontavano i miti, ai giorni nostri in cui la letteratura narra storie per far conoscere cos’è l’amore, il dolore, la noia, la disperazione, la speranza, la tragedia, il senso della vita e l’ineluttabilità della morte. Ma quando i più giovani non conoscono i sentimenti, qualcosa di terribile è accaduto nella società. L’educazione emotiva dei ragazzi non sembra più far parte dei compiti dei genitori, della scuola, della società. Chi spiega loro quali sono i sentimenti che vivono e quelli che potrebbero vivere? 
 
Nel vecchio continente, il disagio sociale di tanti giovani, soli, che si sentono abbandonati nelle grandi periferie urbane si collega pericolosamente alla mancata integrazione degli immigrati – ancora non integrati come “nuovi europei”. E’ una realtà di violenza quotidiana divenuta normale per chi è cresciuto in periferia, con poca scuola e senza lavoro, in aree trascurate e divenute quartieri-dormitorio, giovani senza opportunità che trovano negli immigrati il capro espiatorio della loro difficile condizione. “Prima gli italiani” si sente dire, in una gara di diritti negati, che non conduce a niente di buono. Proprio qualche giorno fa, in un comune del Nord Italia, l’accesso alla mensa scolastica è stato consentito “prima” agli italiani… Gli episodi di intolleranza e di razzismo contro chi è immigrato si moltiplicano. Antisemitismo, antigitanismo, islamofobia sono nomi difficili per esprimere una realtà che, specialmente nelle periferie europee, è diventata esperienza quotidiana, che non è solo virtuale ma è anche reale. 
 
Ma è pure la vicenda di tanti figli di immigrati, di seconda o terza generazione, che cercano nell’islam radicale la possibilità di uscire dalla marginalità. È insomma la realtà di un’integrazione mancata, in tante periferie divenute ghetti. Questa situazione di conflitto sociale esplosa negli ultimi decenni, si va ad aggiungere ai numerosi problemi causati dalla povertà che determinano spesso il destino di chi è svantaggiato e si sente escluso dal resto della società.
 
Imparare a vivere insieme è sempre di più, oggi, l’altro volto della pace. Luoghi dove si sperimenti una convivenza pacifica, in un mondo sempre più urbanizzato, complesso e conflittuale, sono, se possibile, ancora più necessari. La globalizzazione sembra lasciare soli dinanzi alle tensioni di una convivenza difficile, ritenuta a tratti impossibile. In questo scenario, dove abbondano i cattivi maestri che incitano al conflitto e all’odio, sentiamo l’esigenza di moltiplicare le energie per educare le giovani generazioni a rispettare la vita umana, ad amare la pace e rigettare il culto della violenza.
 
Al centro del nostro lavoro c’è, allora, l’impegno a insegnare a vivere in pace, in tanti contesti; non solo dove c’è la  guerra, ma ovunque, specie dove ci sono tensioni e conflitti. In periferie abbandonate, le Scuole della Pace, i nostri centri gratuiti pomeridiani, tenuti da giovani volontari, si rivolgono a bambini che non hanno altra alternativa che la strada. Studio, attività, giochi, gite e vacanze sono il veicolo di una nuova cultura di apertura all’altro, alla diversità, che rappresenta il presupposto -ma anche il contenuto- di un’educazione alla pace e alla convivenza. 
 
In questo modo, alla propaganda della violenza e della forza bruta, Sant’Egidio oppone un’esperienza quotidiana di convivenza in pace, una sorta di “controcultura”. E’ un impegno forse meno noto di quello per la pace in tante situazioni di conflitto o nel dialogo interreligioso. Ma la sollecitudine per educare alla pace le giovani generazioni coincide con la nascita stessa della Comunità, nel 1968, quando si iniziò a fare scuola ai bambini marginali di Roma ed è diventata oggi una educazione quotidiana e mondiale che coinvolge centinaia di migliaia di bambini, in Europa, Africa, Asia e Americhe. Nelle Scuole della Pace di Sant’Egidio, oltre al sostegno scolastico e affettivo, si offre ai più piccoli la possibilità di imparare a crescere insieme agli altri senza pregiudizi e ostilità. Conoscere da vicino, senza timore ma con simpatia, il diverso, semplicemente l’altro da me: lo straniero, il rom, il povero. 
 
Al culto della forza come sopraffazione, si oppone la forza della non violenza e la simpatia verso il debole. L’incontro con chi è più fragile è un elemento assai importante del “metodo” di Sant’Egidio. Una solidarietà vissuta e sperimentata insieme ad altri coetanei, diviene educazione a comprendere l’altro, a vivere sentimenti nuovi di comprensione, di compassione, di empatia, di affetto. Si sperimenta che quel ragazzo immigrato, temuto come uno straniero -virtualmente nemico- ha gli stessi sentimenti e paure, insieme a un vissuto di dolore che si impara a comprendere. 
 
Sentimenti nuovi si affacciano in esistenze desertificate dalla solitudine. Un giovane vicino a un bambino o un ragazzo accanto ad un anziano comincia a comprendere che la debolezza è parte della vita. Non va temuta né esorcizzata. Questo innesca un cambiamento psicologico e antropologico. Nel deserto emotivo che è la vita di tanti ragazzi, la tenerezza per un piccolo o un debole diviene un elemento di forza e di empatia per l’altro.  Si ribalta il modo di guardare l’altro, che non è più il “nemico”, o la persona da allontanare. Si impara a non avere paura di chi è diverso: straniero, povero, anziano,…. Ci si libera, insomma, della cultura del nemico e si comincia a sperimentare la cultura della solidarietà per chi è più debole. 
 
Ad una logica del “prima gli italiani” si oppone una nuova sensibilità alle difficoltà e tragedie della terra. Si comincia a conoscere la geografia del mondo, con le sue tensioni e le sue fratture. Una “geopolitica” nuova si delinea dinanzi agli occhi dei bambini e dei ragazzi; fatta di incontri personali con volti, storie e racconti che fanno conoscere da vicino le vicende di tanti paesi. Alou, giovane maliano giunto in Italia con un barcone, mentre parla della sua fuga dalla guerra, è ascoltato con attenzione e accettato come un nuovo amico. Yussef, giovane afgano, che ha attraversato l’Asia per trovare la pace, non fa più paura…
 
Nelle Scuole della pace, diffuse in quattro continenti, ci si sente legati in una “fraternità” universale, senza confini, che spinge a sentirsi fratelli. E’ un allargamento della bolla entro cui i social li costringono, un allargamento di orizzonti e di vedute con uno sguardo di simpatia. E’ una globalizzazione della solidarietà, che si oppone a quella globalizzazione dell’indifferenza di cui papa Francesco ha tanto parlato. Non è un’ingenuità schierarsi già a dodici anni contro il razzismo, così come non lo è condannare chi allontana gli stranieri. E’ un’esperienza concreta, che si fa necessità stringente, quando il tuo compagno di banco è emarginato perché di colore o perché è rom.
 
Anche se si è vissuti sentendosi virtualmente vicini con i lontani e allontanandosi dai vicini, alla Scuola della Pace si impara a vivere l’incontro con chi ti è vicino, senza paura e a sentire vicine le vicende dolorose di chi è lontano.
 
Imparare a vivere insieme nella solidarietà apre il cuore e la mente a comprendere e a sentire la domanda di pace che c’è oggi nel mondo. Per questo i nostri centri per bambini si chiamano Scuole della pace, ed il nostro movimento giovanile prende il nome di “Giovani per la pace”: la pace è una grande domanda da accogliere e da vivere. E’ un modo diverso di guardare se stessi e gli altri, per imparare a conoscere e confrontarsi, senza fuggire nel virtuale e senza temere l’incontro personale con chi è diverso, senza dare spazio alle paure. 
 
Ha affermato Zygmunt Bauman: “Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e non si può tornare indietro. Dobbiamo capire come integrarci senza aumentare l’ostilità, senza separare i popoli che non appartengono allo stesso luogo. Come possiamo riuscirci? È la domanda fondamentale della nostra epoca”. 
 
La domanda fondamentale della nostra epoca è una domanda di pace: imparare a vivere insieme senza nemici, consapevoli che ormai il “noi” si allarga a comprendere tutti i popoli della terra e che vivere il “noi” è una delle promesse di futuro per i giovani.
 
 


Discorso di Adriana Gulotta
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