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Stefano Zamagni

Economista, Italia
 biografia
1.
Cosa  vuol  dire  essere costruttori  di pace  quando si  agisce  nella sfera economica, nelle odierne condizioni storiche? Per ragioni di spazio, mi limito qui a suggerire un paio di ambiti di azione su cui è urgente intervenire per aggredire le cause che impediscono che lo sviluppo dei popoli risulti integralmente umano. 
 
Un primo ambito è quello di prendere finalmente sul serio la proposizione montiniana secondo cui “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Tre sono le tesi che valgono a conferire ad essa tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga essa possa essere, non una condizione permanente delle società degli umani. La seconda tesi statuisce, però, che la pace va costruita, posto che essa non è qualcosa di spontaneo che si verifica a prescindere dalla volontà degli uomini. La terza tesi precisa, infine, che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, cioè regole del gioco, di pace: quelle che mirano appunto allo sviluppo umano integrale. 
 
Quali sono le istituzioni di pace che oggi meritano priorità assoluta? Per abbozzare una risposta conviene fissare l’attenzione su alcuni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Il primo concerne lo scandalo della fame. È noto che la fame non è una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, il fatto che essa non è la conseguenza di una “production failure”, a livello globale, di una incapacità cioè del sistema produttivo di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità di risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una “istitutional failure”, la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. Si considerino i seguenti eventi. Lo straordinario aumento dell’interdipendenza economica, che ha avuto luogo nel corso dell’ultimo quarto di secolo, comporta che ampi segmenti di popolazione possano essere negativamente influenzati, nelle loro condizioni di vita, da eventi che accadono in luoghi anche parecchio distanti e rispetto ai quali non hanno nessun potere di intervento. Accade così che alle ben note “carestie da depressione” si aggiungano oggi le “carestie da boom”, come A. Sen ha ampiamente documentato. Non solo ma l’espansione dell’area del mercato – un fenomeno questo in sé positivo – significa che la capacità di un gruppo sociale di accedere al cibo dipende, in modo essenziale, dalle decisioni di altri gruppi sociali. Per esempio, il prezzo di un bene primario (caffè, cacao, ecc.), che costituisce la principale fonte di reddito di una certa comunità, può dipendere da quello che accade al prezzo di altri prodotti e ciò indipendentemente da un mutamento nelle condizioni di produzione del primo bene.  
 
Un secondo fatto stilizzato fa riferimento alla mutata natura del commercio e della competizione tra paesi ricchi e poveri. Nel corso degli ultimi venti anni, il tasso di crescita dei paesi più poveri è stato più alto di quello dei paesi ricchi: il 4% circa contro l’1,7% circa all’anno sul periodo 1980-2000. Si tratta di un fatto assolutamente nuovo, dal momento che mai in passato era accaduto che i paesi poveri crescessero più rapidamente di quelli ricchi. Questo vale a spiegare perché, nel medesimo periodo, si sia registrato il primo declino nella storia del numero di persone povere in termini assoluti (quelle cioè che in media hanno a disposizione meno di due dollari al giorno, tenuto conto della parità dei poteri di acquisto). Prestando la dovuta attenzione all’incremento dei livelli di popolazione, si può dire che il tasso dei poveri assoluti nel mondo è passato dal 62% nel 1978 al 29% nel 1998. Va da sé che, tale risultato notevole non ha interessato, in modo uniforme, le varie regioni del mondo. Ad esempio, nell’Africa Sub-Sahariana, il numero dei poveri assoluti è passato da 217 milioni nel 1987 a 301 milioni nel 1998. Al tempo stesso, però, la povertà relativa, vale a dire la disuguaglianza – così come misurata dal coefficiente di Gini o dall’indice di Theil – è aumentata vistosamente dal 1980 ad oggi. È noto che l’indice di disuguaglianza globale è dato dalla somma di due componenti: la disuguaglianza tra paesi e quella all’interno del singolo paese. Gran parte dell’aumento della disuguaglianza globale è attribuibile all’aumento della seconda componente sia nei paesi densamente popolati (Cina, India, Brasile) che hanno registrato alti tassi di crescita, sia nei paesi dell’Occidente avanzato. Ciò significa che gli effetti redistributivi della globalizzazione non sono univoci: non sempre guadagna il ricco (paese o gruppo sociale che sia) e non sempre ci rimette il povero (cfr. Milanovic, Global Inequality, Harvard University Press, 2016).  
 
Di un terzo fatto stilizzato conviene dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia – in special modo, tra maschi e femmine – sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solo un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un’economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a “comandare” il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. Come la moderna scienza della nutrizione ha dimostrato, dal 60% al 75% dell’energia che una persona ricava dal cibo viene utilizzata per mantenere il corpo in vita; solamente la parte restante può venire usata per il lavoro o altre attività. Ecco perché nelle società povere si possono creare vere e proprie “trappole di povertà”, destinate a durare anche per lunghi periodi di tempo. 
 
Quel che è peggio è che un’economia può continuare ad alimentare trappole della povertà anche se il suo reddito cresce a livello aggregato. Ad esempio, può accadere – come in realtà accade – che la crescita economica, misurata in termini di PIL-pro-capite, incoraggi i contadini a trasferire l’uso delle loro terre dalla produzione di cereali a quella di carne, mediante un aumento degli allevamenti, dal momento che i margini di guadagno sulla seconda attività sono superiori a quelli ottenibili dalla prima. Tuttavia, il conseguente aumento del prezzo dei cereali andrà a peggiorare i livelli nutrizionali della fasce povere della popolazione, alle quali non è comunque consentito accedere al consumo di carne. Il punto da sottolineare è che un incremento nel numero di individui a basso reddito può accrescere la malnutrizione dei più poveri a causa del mutamento della composizione della domanda di beni finali. Si osservi, infine, che il collegamento tra status nutrizionale e produttività del lavoro può essere “dinastico”: una volta che una famiglia o un gruppo sociale sia caduto nella trappola della povertà, è assai difficile per i discendenti uscirne, e ciò anche se l’economia cresce nel suo complesso.  
 
 
 
2.
Quale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d’atto di un nesso forte tra “institutional failure”, da un lato, e scandalo della fame e aumento delle disuguaglianze globali, dall’altro, ci ricorda che le istituzioni non sono – come le risorse naturali – un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. Se la fame dipendesse – come è stato il caso agli inizi del novecento – da una situazione di scarsità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare che invitare alla compassione fraterna ovvero alla solidarietà.Sapere, invece, che essa dipende da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte sbagliate, non può non indurci ad intervenire sui meccanismi e sulle procedure in forza dei quali quelle regole vengono fissate e rese esecutive. 
 
Da dove nasce il problema? Dal fatto che la globalizzazione reale non è riuscita a far stare insieme la multiculturalità (cioè la presenza delle varietà culturali che è di per sé condizione di successo della dinamica sociale) e l’integrazione socio-economica dei vari paesi (cioè la convergenza verso livelli decenti di benessere, il che costituisce il presupposto della democrazia e della pace). Anzi, la globalizzazione ha esasperato il conflitto tra questi due obiettivi fondamentali: contatti e frequentazioni tra gruppi appartenenti a culture diverse provocano aggiustamenti comportamentali per rendere più agevole il coordinamento interpersonale e più pervie le transazioni economiche. A loro volta, però, i cambiamenti intervenuti nei comportamenti retroagiscono, sui valori e sui tratti culturali. Di qui il dilemma nuovo di questo nostro tempo: se si vuole limitare l’omogeneizzazione culturale occorre accettare ostacoli all’integrazione socio-economica e, viceversa, se si vuole favorire quest’ultima, occorre accettare un più spinto livello culturale. Ciò che fa problema – si badi – non è tanto la mescolanza di culture sul territorio, fenomeno questo presente fin dall’antichità. Quanto piuttosto la mescolanza con rivendicazione di parità. Poiché culture che erano rimaste separate per secoli, sono diventate, grazie alla globalizzazione, improvvisamente osmotiche, ciò che fa difetto è una qualche unità di intesa. E su questo problema non si registrano proposte concrete (e forse neppure un’adeguata consapevolezza).
 
Accade così che i luoghi dove vengono “prodotte” le norme sociali di comportamento, i valori, gli stili di vita, sono oggi extraterritoriali e avulsi da vincoli locali, mentre non lo è certo la condizione di vita di coloro che sono legati ad un luogo specifico. Costoro si trovano quindi a dover attribuire un senso a modi di vita che non sono indigeni, ma importati da altrove. Come soleva dire Max Weber, se il mondo diventa grande, la gente vuole il piccolo. È in ciò l’origine dello sradicamento, della perdita di radici da parte di sempre più numerosi gruppi sociali, con le conseguenze di cui le cronache ci danno resoconto puntuale. Per dirla in altro modo, la globalizzazione va generando una crescente separazione tra i luoghi in cui viene prodotta la cultura e i luoghi in cui essa può essere fruita. Il ben noto fenomeno della de-territorializzazione non riguarda solamente le imprese le quali possono decidere con relativa disinvoltura dove localizzare le proprie attività produttive, ma anche i modelli culturali.
 
Che fare? C’è chi suggerisce di lasciare che il processo in atto avanzi secondo la sua logica interna, e c’è chi propone di arrestare, almeno parzialmente, la globalizzazione. Si tratta, in entrambi i casi, di scorciatoie inefficienti e comunque pericolose.  Piuttosto, ritengo plausibile e percorribile un’altra via, quella che mira a modificare l’assetto istituzionale dell’ordine internazionale post-hobbesiano nella direzione della pluralità dei centri di potere, cioè della poliarchia, che, a differenza del pluralismo, non è solo numerosità ma anche diversità. 
 
Un primo passo in tale direzione è la promozione di un piano di redistribuzione del reddito a scala globale per aggredire l’endemico aumento delle disuguaglianze tra gruppi di persone (non tanto tra paesi). A scanso di equivoci: la globalizzazione ha ridotto e va riducendo la povertà assoluta (il che è un bene), al prezzo però di un aumento delle disuguaglianze – come la ormai celebre “Curva dell’elefante” di B. Milanovic (2016) dimostra a tutto tondo. Ebbene, se il 10% della spesa militare corrente al mondo – 1700 miliardi di dollari all’anno - http://www.sipri.org/databases/milex – venisse dirottato su un Fondo Globale per lo Sviluppo, gestito da un’autorità indipendente, si genererebbero risorse sufficienti per superare nell’arco di un decennio la “globalizzazione dell’indifferenza” a favore di una globalizzazione inclusiva. Già Paolo VI nella sua Populorum Progressio (1967) aveva avanzato una tale proposta esattamente cinquant’anni fa. 
 
Un secondo passo concreto da prendere in seria considerazione riguarda l’adozione della cosiddetta “Agenda Globale 2030”. Nel settembre del 2015, i paesi membri delle Nazioni Unite hanno approvato la nuova Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile e i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) da raggiungere entro il 2030. Si tratta di un evento storico, in primo luogo perché viene riconosciuta l’insostenibilità dell’attuale sentiero di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e su quello sociale. Finalmente, viene accolta la nozione di sviluppo umano integrale. Secondariamente, viene superata la distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se i piani di azione devono essere diversi per tener conto dei livelli di sviluppo finora conseguiti. Viene in tal modo superata quella concezione, affermatasi nell’immediato dopoguerra, in base alla quale lo sviluppo dei paesi del Sud del mondo doveva dipendere dagli aiuti e dalla filantropia dei paesi del Nord. Oggi sappiamo quanti guasti e quante nefandezze le politiche di intervento di tipo paternalistico-assistenzialista hanno finito col produrre. Infine, l’attuazione dell’Agenda esige un coinvolgimento non formale di tutte le componenti della società: governi, imprese di tutti i tipi, società civile con le sue organizzazioni sia economiche sia di advocacy. E’ questo un modo concreto per riconoscere non solo legittimità ma pure la rilevanza pratica al principio di sussidiarietà circolare – la cui prima formulazione risale a Bonaventura di Bagnoregio alla fine del XIII secolo. 
 
 
 
3.
Per terminare. Nonostante una certa retorica pseudo-scientifica, secondo la quale le regole del libero scambio mal sopporterebbero l’eterogeneità culturale e troverebbero nelle difformità dei modi di vita un ostacolo alla loro applicazione, occorre contrastare pensieri del genere. Perché la biodiversità economica e sociale è una ricchezza. Molte nazioni, nei momenti migliori della storia, si sono alimentate con le diversità esistenti al loro interno e ne hanno tratto frutti di civiltà e di successo. Ciò vale anche alla scala mondiale. Bisogna allora operare affinché il filtro selettivo imposto dalla competizione globale non annienti le varietà meno forti. Salvaguardare la diversità delle vie dello sviluppo è oggi il modo più efficace di combattere arroccamenti difensivi e di contrastare la richiesta di erigere muri e barriere. 
 
Lo storiografo romano Igino, nel Fabulorum Liber, ci ha trasmesso un racconto mitologico che bene fa comprendere il ruolo, per così dire, economico-sociale della misericordia. Nel racconto, Cura dà forma all’essere umano plasmandolo con del fango. Giove, invitato da Cura a infondere lo spirito al suo pezzo di creta, volle imporre il suo nome, ma Terra intervenne reclamando che venisse data a questa creatura il proprio nome, perché aveva dato ad essa parte del proprio corpo. Saturno, eletto a giudice, decise che questa creatura si sarebbe chiamata homo (da humus, fango), che Giove avrebbe avuto lo spirito al momento della morte, mentre Terra ne avrebbe ricevuto il corpo; ma Cura lo avrebbe posseduto per tutta la vita, poiché per prima gli ha dato forma. Cura dà forma al fango conferendogli così dignità umana. È in ciò la missione propria della misericordia in ambito economico: quella di dare “forma” al mercato, umanizzandolo.
 
Un passo famoso di William Blake – poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture – ci aiuta ad afferrare la potenza del principio di fraternità: “Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre”. L’intuizione del poeta inglese è ricavata dalla pagina evangelica in cui Gesù ci informa che il suo viso si cela dietro i profili miseri degli ultimi dei nostri fratelli (Mt., 25, 31-46). E’ nella pratica della misericordia che la persona incontra il proprio io, l’altro e Dio.
 
Ha scritto Albert Camus in Nozze: “Se c’è un peccato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quanto sperare in un’altra vita e sottrarsi all’implacabile grandezza di questa”. Camus non era credente, ma insegna a tutti una verità: non bisogna peccare contro la vita presente squalificandola, umiliandola.  Non si deve perciò spostare il baricentro della nostra fede sull’aldilà tanto da rendere insignificante il presente: peccheremmo contro l’Incarnazione. Quello di Camus è, in verità, un pensiero antico che risale ai padri della Chiesa che chiamavano l’Incarnazione Sacrum Commercium, per sottolineare il rapporto di reciprocità profonda tra l’umano e il divino e soprattutto per sottolineare che il Dio cristiano non è un Dio-sostanza, un Dio-causa – questo è il Dio dei filosofi. Ma è un Dio di uomini che vivono nella storia e che si interessa, fino alla commozione, alla loro condizione umana. Amare l’esistenza è allora un atto di fede, e non solo un piacere personale. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma anche il presente, perché la persona umana ha necessità di sapere che le sue opere, oltre ad una destinazione finale, hanno un significato e una valore anche qui e ora.
 


Discorso di Stefano Zamagni
Discorso di Stefano Zamagni
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