13 Settembre 2011 09:00 | Residenz, Allerheiligen-Hofkirche
Violenza diffusa: la nuova frontiera della pace di Crescenzio Sepe
In questo nostro tempo pieno di stridenti contraddizioni, ancora ingiustamente diviso tra chi ha tutto e chi niente, la parola pace sembra essere soltanto uno slogan che, seppure gridato con forza, rimane una voce isolata in un mondo in cui una violenza diffusa attraversa in maniera trasversale tutti i paesi e tutte le generazioni.
Certamente alcuni governi continuano a promuovere missioni di pace, associazioni e movimenti, come la Comunità di Sant’Egidio, si impegnano quasi quotidianamente a sensibilizzare soprattutto i giovani che sventolano la bandiera dai colori dell’arcobaleno. Ma, dobbiamo ammettere, con rammarico, che troppa violenza continua a serpeggiare nei rapporti umani, interpersonali e sociali.
L’apparente rassegnazione di quanti nei paesi più poveri vivono situazioni di estrema indigenza; la rabbia dei popoli oppressi da regimi totalitari e della gente comune, schiacciata da condizioni di vita difficili; la ribellione dei giovani disoccupati; l’insoddisfazione di quanti nei paesi ricchi si sentono depressi e delusi dal falso benessere, generano un malessere profondo che, come lava sotterranea di un vulcano, nella violenza di un’improvvisa eruzione, può distruggere ogni cosa. Come non pensare alla strage di Oslo! Certamente è stata determinata dal gesto isolato di un giovane folle, ma tuttavia ci induce a riflettere su quanta rabbia, su quanti valori distorti, su quanta violenza albergano ancora nel cuore dell’umanità: “Dell’orgoglio – recita il salmista – gli uomini si fanno una collana e indossano come abito la violenza” (Sl 73,6).
Sin dalle origini della storia umana, da quando Adamo e Eva hanno mangiato il frutto, per appropriarsi della conoscenza del bene e del male, l’uomo si fa nemico di Dio ogni qualvolta diviene nemico dell’altro. E ogni qual volta i diritti dell’uomo vengono barattati con i diritti individuali, le guerre diventano ipocritamente guerre giuste e perfino le religioni vengono usate per istigare alla violenza.
Di fronte ai tanti soprusi del nostro tempo, all’arroganza di chi vuol raggiungere il successo a ogni costo, dinanzi alla quotidiana aggressività dei modi e delle parole, che a volte uccidono più delle armi, sembrerebbe essere vera la nota affermazione di (Hobbes): “Homo hominis lupus”. Come nella favola de Il lupo e l’agnello l’uomo che usa violenza contro il più debole giustifica e legittima il suo comportamento. Non solo lo rende lecito, ma quasi un dovere a cui non può sottrarsi per salvare il suo onore, come il lupo costretto a mangiare l’agnello che, bevendo nel ruscello, ha intorbidato l’acqua. E ogni volta che l’acqua diviene la nostra acqua, ogni volta che il pane diviene il nostro pane, al principio della condivisione si sostituisce il nostro diritto esclusivo a usare i beni della terra a danno di altri.
Mettendo a tacere la voce di Dio, che ripete: non uccidere, non rubare, non angariare il prossimo, l’altro diviene un nemico da eliminare, e le risorse dell’ambiente solo beni da sfruttare a proprio vantaggio a discapito dell’intero creato. La violenza si è così strutturata nel cuore dei popoli e dei singoli individui e, mentre perfino la natura è stata aggredita, l’uomo, nel corso dei secoli, ha scritto col sangue le pagine più buie della sua storia.
Ancora oggi, ogni volta che l’uomo sceglie la via della violenza che genera la morte del corpo e dell’anima, non possiamo non sentire il monito di Dio che, come a Caino, chiede alla nostra coscienza: “Dov’è tuo fratello?” (cfr. Gen. 4,9).
Una domanda a cui l’umanità non sarà mai in grado di rispondere fino a quando non avrà imparato un linguaggio diverso, il linguaggio della giustizia e dell’amore. La violenza è, infatti, l’espressione estrema di un sistema economico che, sfruttando ideologie politiche e religiose, impone la legge del più forte e, al di là di ogni principio etico universale, di ogni regola civile e morale, insegna all’uomo a pensare a se stesso, al proprio personale tornaconto, a parlare il linguaggio dell’arroganza e del sopruso. Un linguaggio appreso in fretta anche dai più giovani, dagli adolescenti che, mai come nel nostro tempo, hanno adottato il bullismo come stile di vita. Un linguaggio che bisogna combattere accettando la più grande sfida educativa dei nostri giorni.
Non ci sarà pace sulla terra e nel cuore dell’uomo se non adotteremo una regola di vita basata sull’amore fraterno: “La regola del rispetto e della nonviolenza, cioè la forza della verità contro ogni sopruso, - ha affermato il Santo Padre Benedetto XVI – è quella che può assicurare un futuro degno dell’uomo”.
“Destinati a vivere insieme” (Bound to live together), l’uomo ancora non ha imparato la legge della convivenza, nonostante che i grandi uomini di ogni tempo e di ogni fede avessero indicato nella nonviolenza l’unica via per costruire la pace: “Non c’è speranza per il mondo dolorante, - asseriva Gandhi – se non attraverso lo stretto e ripido sentiero della non violenza”.
[Un sentiero ancora da spianare, quello della non violenza, in cui gli uomini scelgono il coraggio del dialogo, sempre e in ogni occasione. Ma non è solo questione di buona volontà; la via della non violenza è un impegno necessario per superare gli odi che dividono, è l’unica strada per recuperare la dignità della specie umana, è l’unica forma alternativa di difesa. Se la violenza genera sempre e solo violenza, resistere alla provocazione del sopruso e dell’arroganza è la sola speranza per poter spezzare quel circolo vizioso che al male fa seguire il male.]
“Bisogna elaborare per ogni conflitto umano un metodo che rifiuti la vendetta, l’aggressione, la rappresaglia. Il fondamento di tale metodo – affermava Martin Luther King – è l’amore”.
Molti secoli prima, in un tempo e in un mondo altrettanto violento, dove i più deboli erano ceduti come bottino di guerra, realmente schiavi dei potenti, Gesù di Nazareth, il Maestro di Galilea, aveva indicato nella mitezza la via rivoluzionaria per combattere la violenza e fare di ogni uomo un uomo in cui lo spirito di Dio apre il suo cuore, nella libertà della coscienza e nella responsabilità di scegliere tra il bene e il male, alla concreta possibilità di costruire un mondo pacificato.
[La mitezza evangelica, alla quale come cristiani siamo chiamati, è qualcosa in più delle mirabili teorie di grandi uomini; essa affonda le sue radici nella Parola di Dio e in Cristo stesso, modello esemplare di nonviolenza. È l’espressione concreta di quel comandamento nuovo che, sovvertendo la logica antica: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,24; Mt 5,38), ci invita ad amare i nostri nemici.]
In ogni sua forma, quella esasperata che genera morte e quella diffusa nella quotidianità dei giorni nel luogo di lavoro, nelle scuole, nelle nostre famiglie, tra i giovani, tra i più ragazzini che non temono di impugnare un coltello e aggredire i compagni per futili motivi, la violenza abbassa l’uomo a livello della bestia.
Forse dovremmo riflettere sul fatto che un animale, anche il più feroce, aggredisce solo per paura o per fame e, se oggi soprattutto, i giovani usano il linguaggio della violenza, allora vuol dire che hanno paura di una società che non offre certezze, non garantisce futuro; vuol dire che hanno fame di valori autentici, di dialogo, di comprensione, di accoglienza, di compagnia. E mentre il mondo degli adulti, costruito sulle leggi del mercato, li riempie di falsi bisogni e di cose inutili, restano soli, intontiti dai video games che inneggiano alla violenza, alla legge del più forte, alla trasgressione di ogni regola come sistema di vita e gli unici eroi che conoscono sono quelli negativi, che dal gioco virtuale passano ai fatti.
La violenza giovanile è ormai un fenomeno sociale dilagante che deve preoccuparci seriamente, è una sfida che chiama in causa tutte le agenzie educative: la famiglia, la scuola, le istituzioni, comprese quelle ecclesiali.
[Nella fragilità di questo contesto, innanzitutto i cristiani sono chiamati a essere maestri della nonviolenza; imboccando la via della mitezza, concretamente testimoniata nei gesti, nelle parole, nelle scelte di vita, professando quell’insieme di valori che aprono la coscienza ai principi della condivisione e della solidarietà.]
Spesso, specialmente tra i giovani, si ritiene che la mitezza sia sinonimo di mancanza di vigore, una debolezza da evitare per non essere sopraffatti e derisi, senza comprendere che occorre molto più coraggio nell’essere miti, nel volgere l’altra guancia a chi ci percuote, che usare la forza delle mani contro chi con prepotenza ostacola il nostro cammino.
La mitezza è molto più di un atteggiamento, di un linguaggio, di una filosofia di vita, non è una innata o accidentale qualità umana, ma è l’espressione più alta della libertà dell’uomo che è tale in quanto responsabile di ogni sua azione, dell’uomo che, chiamato a scegliere, sceglie la via della non violenza, della passione, della forza dell’amore.
Il mite non è il passivo, l’arrendevole, ma colui che impara faticosamente a perdonare e a costruire percorsi di riconciliazione. È il vero eroe di ogni tempo, è colui che intraprende una tenace lotta con se stesso e, disarmando il suo cuore da ogni rancore, ingaggia una guerra di liberazione contro le radici di ogni male, di ogni violenza. Il mite non combatte soltanto contro la violenza fisica ma, contrario a ogni violenza psicologica, sociale, istituzionale, partecipa alla costruzione della vera pace.
Il mite non usa le armi dei violenti, ma con la sola forza delle sue mani nude difende la libertà degli spazi, ideologici, religiosi da ogni prevaricazione. Con la costanza delle sue idee, mantiene in vita lo stesso sogno che ha sorretto fino alla morte i martiri della nonviolenza dei secoli passati e dei nostri giorni.
[In un mondo sempre più violento, la mitezza è la sola strategia per ripristinare l’armonia del creato, la nonviolenza è la risposta più alta ai cruciali problemi politici e morali di ogni tempo, è l’unico modo per sconfiggere ogni forma di oppressione e di violenza senza ricorrere all’oppressione e alla violenza. È l’unica via per educare le nuove generazioni alla pace e ricondurre i giovani sui sentieri dell’amore alla sequela di Cristo. Perché dove c’è violenza non può esserci amore, né tanto meno Cristo.]
Vorrei terminare rivolgendo un appello ai giovani invitando tutti a non commettere gli stessi errori del passato e a impegnarsi per giungere a sopprimere la violenza e la brutalità, a costruire un mondo basato sull’amore, sul rispetto, sulla giustizia e sulla pace.
Ma rivolgo il mio appello anche ai genitori, agli educatori, a quanti hanno responsabilità di governo, a perseguire nella via della nonviolenza ricordando le sapienti parole del Beato Giovanni Paolo II: “Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione!” .
È in questo stretto connubio tra nonviolenza, perdono e riconciliazione che inizia la costruzione di un mondo pacificato; è in questo percorso obbligato, dove a una tappa segue necessariamente l’altra, che la sequela di Cristo trova la sua peculiare essenza.
Se riusciremo a credere che la nonviolenza possa diventare prassi quotidiana nelle relazioni umane tra i singoli e tra i popoli, solo allora capiremo appieno la proposta rivoluzionaria dell’unico vero Maestro: “Beati i miti, perché erediteranno la terra” (Mt 5,5).
Che la Vergine Maria ci guidi sulla via di Gesù, affinché possiamo imparare da Lui, che è mite e umile di cuore, a percorrere la via della nonviolenza, la nuova frontiera della pace.