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Le Scritture ebraico-cristiane incominciano raccontando la creazione del mondo e dell’uomo. I due primi capitoli del libro della Genesi mostrano come Dio crea con la parola e con i gesti (le mani, il soffio). Tuttavia in tutti e due i casi c’è una scintilla d’amore, un disegno compiuto, un sogno che trova modo di realizzarsi. L’essere umano, nella sua singolarità, è il frutto di un affetto che scaturisce da Colui che è fonte e culmine del creato. Orbene, se tutto il creato è un’opera d’amore, l’uomo, creato a immagine e somiglianza del Creatore, supera qualsiasi attesa. Il salmista, rivolgendosi al Signore, proclama su di lui: «L’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Quindi, il fatto che esista l’uomo indica che l’amore ha trionfato nel grado più alto. L’uomo non è soltanto una creatura in più che appare sulla terra, la creatura più perfetta. Arriva all’esistenza uno che è simile a Dio, poiché condivide con Lui la sua capacità di amare. L’uomo nasce perché Dio è amore.
E la giustizia? Che senso ha parlare di un Dio giusto? Non sarà questo l’altro volto divino, quello meno simpatico, vicino al timore che si trova in ogni divinità? Nelle Scritture ebraico-cristiane Dio non viene presentato nei panni dello sgomento e del terrore. Comunque resta Dio, con tutte le possibilità di agire, sempre con giustizia. Infatti, affermare che «Dio agisce con giustizia» è quasi una tautologia, perché la giustizia gli appartiene: Dio è, per definizione, giusto. Tuttavia, la giustizia di Dio non significa che Dio sia pronto a punire ma che il suo disegno originale va rispettato e attuato secondo la legge non scritta dell’amore. Il punto di partenza del disegno divino è sempre l’amore, ma tocca a Dio fare sì che questo amore non si disperda, e questo è il compito della giustizia: prenderà su di sé la responsabilità di non far mancare mai l’amore, e con esso la misericordia e la fedeltà. La giustizia di Dio agisce affinché la realtà venga mantenuta come Lui l’ha pensata o affinché ritorni o arrivi al suo punto giusto e veritiero. Nei salmi giustizia, pace, amore e verità si presentano accoppiate, così come canta il salmo 85: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (v. 11).

Prendiamo la vicenda di Adamo ed Eva, che hanno trasgredito il comandamento di Dio (il loro stesso creatore!) e vediamo come vi si articolano amore e giustizia. I primi padri hanno violentato l’amore di Dio. La coppia primordiale aveva ricevuto tutto dal Signore: una vita felice e senza restrizioni, la compagnia di un altro essere umano, un luogo bello e buono per abitare e, soprattutto, l’amicizia e l’affetto di Dio stesso. Ma questo amore-amicizia di Dio viene ferito quando l’orgoglio e la prepotenza si introducono, come semi letali, nel cuore dell’uomo e della donna. Allora tutto cambia, e il debito dell’amore dovuto a Dio diventa affermazione stolta di sé. Quando Adamo ed Eva ascoltano il serpente, ascoltano sé stessi e non ricordano più l’amore del Signore: tutto resta orientato all’amore per sé.
Il rapporto con Dio si è rotto. L’amore condiviso tra Dio e l’uomo si è frantumato. Continua ad esistere ma ha perso la coesione e la chiarezza di prima. Lo sbaglio dell’infedeltà ha scosso sia il disegno divino originale che la figliolanza di Adamo ed Eva nei riguardi del loro Creatore. Il tempo del paradiso è finito. Ma l’amore del Signore non finisce mai. Prosegue ora diversamente, nel quadro di una vita umana che ha conosciuto il peccato. Appunto per questo la giustizia di Dio deve agire. Bisogna riequilibrare una bilancia che, con il fallimento di Adamo, si è spostata verso l’allontanamento dal Creatore e la vergogna provocata dalla colpa. La nudità è il segno paradossale di un rapporto che, fondato prima sull’amore, è crollato e ha lasciato l’uomo nella vergogna, senza nulla che coprisse il suo fallimento.
La giustizia divina non lascia l’uomo nel pozzo profondo della colpa, oltre la speranza, ma al contrario, invece di punirlo, gli dà una misura generosa, sproporzionata. Così, subito dopo il fallimento dell’Eden, Dio ha compassione della nudità dell’uomo e la donna, e li copre con «tuniche di pelli» (3,21). Ma, soprattutto, il Signore non permette che l’uomo perda il dono più grande che ha ricevuto: essere creato a immagine e somiglianza di Dio. L’amore del Signore non si fa indietro. Lo sbaglio dell’uomo è accaduto perché l’amore è stato sorpassato dall’orgoglio, il quale è il frutto spurio della libertà. L’uomo ha pensato di poter essere come Dio, e conoscere e controllare il bene e il male.
Dio, nella sua giustizia, non toglie all’uomo la sua umanità: l’uomo resta uomo, può avvicinarsi a Lui e mantenere il dono prezioso del logos, la parola, cioè, il linguaggio e la razionalità, la libertà e la responsabilità, la coscienza e la storia. Ma d’ora in poi vivrà la sua condizione umana nel dolore e nella fatica di un lavoro pesante, circondato da una natura che produrrà «spine e cardi» (3,18), e anche i rapporti tra uomo e donna andranno avanti nella difficoltà. Il paradiso, l’Eden, resta sostituito da una terra che è bella ma che al contempo è stata colpita dal male. Tuttavia, Dio è giusto, e la speranza dell’uomo riposerà su una promessa: «la stirpe della donna» schiaccerà il male, ed esso non prevarrà (3,15). La giustizia non cancella l’amore, lo conserva e lo ripropone con forza rinnovata malgrado i ripetuti fallimenti umani. Nelle Scritture la giustizia divina ripropone l’amore frantumato, che Dio mantiene malgrado le infedeltà del popolo che Lui ha scelto e malgrado gli sbagli dell’umanità da Lui creata.

La storia finisce col giudizio universale, con quell’atto di giustizia in cui tutti gli uomini che hanno varcato le soglie dell’esistenza sono radunati affinché siano soppesate  le loro opere e le loro intenzioni, quello che è manifesto e quello che è nascosto, la verità mai conosciuta e la menzogna che prendeva le forme della verità. Il giudizio di Dio è veritiero, i veri scopi emergono e si fa la luce sulla vita degli uomini. Quindi, il Dio giusto, mostrando a tutti il peso reale delle opere compiute da ognuno, riequilibra, come nel caso dei primi padri, quello che restava sconosciuto alla debolezza umana. Nel giudizio finale il bene è rivendicato e il male resta smascherato. L’iconografia cristiana ha fatto di Michele l’arcangelo responsabile della bilancia che deve soppesare le opere di ogni essere umano. Nessuno rimane escluso dal comparire davanti a Dio e «davanti al Figlio dell’uomo» (Luca 21,36). Il giudizio finale è un momento di chiarezza assoluta dinanzi alla quale non si può togliere né aggiungere nulla. Il «Dio giusto» scruta «mente e cuore» (Salmo 7,10), conosce i pensieri e i sentimenti, e nessuno è in grado di sfuggirgli.
C’è spazio per l’amore quando l’umanità si presenta al tribunale divino per rispondere dei propri atti? Quali sono la funzione e il luogo dell’amore nel momento in cui tutto deve essere misurato secondo la verità più scarna e la giustizia più limpida? Le Scritture non si pronunciano sulle decisioni finali di Dio riguardo ogni uomo e ogni donna. C’è un timore comprensibile nel fatto di immettersi nel libero volere divino. Nei Vangeli c’è questo detto sorprendente: «Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre» (Marco 13,32). Se il giorno della fine resta sconosciuto, meno ancora è possibile provare a conoscere i termini in cui si porrà concretamente la salvezza di Dio.
Ma c’è un brano decisivo che riguarda il giudizio finale e la giustizia che vi è amministrata. Mi riferisco al capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo (vv. 31-46). Tutti i popoli sono presenti dinanzi a Gesù, crocifisso e risorto, il Figlio dell’uomo nella sua gloria che ha «ogni potere in cielo e sulla terra» (28,18). E in questo momento solenne vengono messi a confronto l’amore e la giustizia. Da una parte, il Figlio dell’uomo mette a fuoco le opere degli uomini. In modo proprio sorprendente, non si tratta di mostrare dove e quando sia stata trasgredita la Legge divina rivelata a Mosè, oppure mostrare le forme di male adoperate da coloro che non hanno conosciuto la rivelazione divina di quella Legge. La giustizia del Figlio dell’uomo verterà sull’amore. Alla fine della storia la giustizia si identifica con l’amore. L’amore diventa dunque il criterio della giustizia. I giusti sono coloro che hanno amato in modo concreto, coloro che sono stati giusti con gli altri, vicini o lontani, sempre – comunque - prossimi.
Difatti, colui che sfama l’uomo che non ha da mangiare, riequilibra quello che dovrebbe essere la situazione generale, cioè che tutti possano avere il cibo necessario. Colui che dà da bere all’assetato, rimette in equilibrio quello che è un diritto universale: avere le risorse idriche necessarie. Lo straniero, di qualsiasi origine e condizione, non può essere tralasciato e dimenticato, ma accolto, come ogni essere umano. È anche giusto che ogni essere umano possa coprirsi con un vestito degno, così da non esporre al freddo o al caldo il corpo, sempre fragile. Quando la malattia, ineludibile in qualsiasi vita umana, colpisce un essere umano, costui non può essere abbandonato: la sua solitudine deve essere riequilibrata e rimediata. Infine, un prigioniero, nella sua disgrazia, non può restare privo di compagnia, così necessaria in una persona messa da parte dalla società ma che non è stato condannato a vivere da solo. Bisogna dunque riequilibrare la sua solitudine.
Nel giudizio finale, amore e giustizia si identificano nella misura in cui tutti e due sono rivolti verso i poveri, cioè verso coloro che si trovano nel bisogno. Il bisogno richiede per se stesso una riposta che non può aspettare. C’è un’urgenza nell’amore concreto verso i bisognosi e verso i poveri. È giusto dunque che ricevano un’attenzione senza limiti. E allora arriva la domanda su chi sceglierà di dargliela. Soltanto quelli che abbiano sentito dentro di loro una commozione pari a quella che il padre della parabola sentì quando vide il figlio che tornava a casa. O come quella commozione che lo stesso Gesù, giudice universale, manifesta quando dichiara a coloro che si sono mossi a compassione dinanzi ai bisogni degli altri: «Quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me» (Matteo 25,40).
Questa è la sentenza che chiude la storia. La pronuncia il giudice dei vivi e dei morti, il Signore risorto, che chiama i poveri «fratelli» suoi. L’amore e la giustizia si sono incontrati e identificati. L’affetto per i poveri, un tempo suscitato negli oracoli dei profeti di Israele, detta l’ultima sentenza della storia umana. La giustizia si riconosce come amore. L’amore è dunque la vera giustizia.

Armand Puig i Tàrrech
Preside della Facoltà Teologica di Catalogna (Barcellona)
Comunità di Sant’Egidio (Barcellona)