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Marco Gnavi

Comunità di Sant’Egidio, Italia
 biografia

Quale statuto hanno i poveri per spronarci all’unità?   
Quale statuto hanno i poveri, in relazione alla ricerca di unità fra i cristiani? Cosa possono suggerire a un incontro come quello odierno, fra cattolici, ortodossi, evangelici? Quale autorevolezza, possono avere fra noi uomini, donne, ma anche bambini, anziani feriti dalla vita, spesso solo esperti nel patire? Sono uomini e donne dei “dolori”, somiglianti al misterioso servo cantato da Isaia nel capitolo 53. “Non hanno apparenza, né bellezza per attirare il nostro sguardo”. Eppure, scrive Joseph Ratzinger in “Fraternità cristiana”, a proposito del capitolo venticinquesimo del Vangelo di Matteo, v.40, il termine “fratello”, solitamente attribuito ai soli discepoli del Cristo, qui indica in maniera esplicita e eccezionale, i poveri, i quali “ indipendentemente dalla loro qualità etica, semplicemente per la loro piccolezza e per l’appello ivi insito rivolto all’amore degli altri, rendono presente il maestro. Gli eláchistoi , sono, in quanto tali, fratelli del Signore, che si è fatto il più piccolo tra gli uomini ”.

Il povero è necessario alla Chiesa: in lui è presente il Maestro
Il povero quindi, è “necessario” alla vita delle Chiese: rende presente il maestro. Scrive il poeta Tjutcev: “Schiacciato sotto il peso della croce / il re del cielo con i suoi stracci / Ti ha percorso tutta intera / Terra natale, benedicendo”. Senza il povero e senza l’amore per lui, a fatica ci avviciniamo al mistero della croce e partecipiamo all’attesa della resurrezione. Lui ci provoca alla preghiera; non smette di sfidarci all’amore, perché lottiamo contro la morte, credendo all’impossibile, con il realismo della fede. Ci ricorda che anche noi siamo mendicanti di vita, e per questo dobbiamo essere uomini e donne “eucaristici”, cioè uomini e donne della lode e della gratitudine, stretti intorno al Signore Gesù, il solo capace di trasfigurare l’umanità. I panni del povero – che noi temiamo o aborriamo – svelano, come in uno specchio riflesso, la verità ultima: ciascuno, senza esclusione, un giorno, un’ora, sarà in tutto dipendente dalla misericordia e simile a lui. L’autosufficienza, la ragione, i beni varranno per come sono stati utilizzati: se al servizio dell’amore, ci apriranno al Regno. Altrimenti ne sperimenteremo la vanità e faremo esperienza dell’abisso che separò il ricco epulone, dal seno di Abramo e da Lazzaro.

Il nome di Lazzaro e l’anonimato del ricco.
Ora avviene – ed è S.Giovanni Crisostomo a ricordarlo nella sesta omelia sul Povero Lazzaro, tenuta nella prima metà del 387 ad Antiochia, appena un anno dopo la sua ordinazione, e dopo un violento terremoto – che nel Vangelo egli abbia un nome, mentre il ricco, resta anonimo. Si capovolge la prospettiva storica nella quale il ricco e il povero hanno sempre vissuto, allora, come oggi. Crisostomo sferza i suoi ascoltatori e parla di maschere che cadono: Lazzaro, alla porta del ricco, invisibile e senza volto, ora è nel seno di Abramo ed è benedetto. Il ricco, incapace anche solo di offrirgli gli avanzi della sua tavola  - lui che godeva di buona fama e il cui nome era probabilmente invidiato - ora prova la morsa della disperazione. Invoca tardivamente aiuto e comunione con Lazzaro. Non viene condannato da  Abramo – che continua a chiamarlo “figlio” - ma la follia della sua stessa esistenza, che, priva dell’esercizio della misericordia, non ha voluto riconoscere per tempo Lazzaro, come commensale e amico. Questa omelia risuonava nell’ambiente cosmopolita di Antiochia, carico di tensioni e di miserie, seppure fra potenti latifondi e capitali finanziari. Monachesimo e antica tradizione cristiana della città, si misuravano con abiti e cultura pagane, in un crogiuolo di etnie e lingue differenti.

Davanti al terremoto della storia, la benedizione dei poveri
All’inizio di questo decennio, non siamo forse noi di fronte a un terremoto ben più vasto e globale, di quello che colpì allora Antiochia? I continenti, le idee di felicità e benessere, i messianismi politici e finanziari, le certezze acquisite, non sono state scosse nelle loro fondamenta? La storia ridisegna i rapporti fra i popoli e incide e talvolta ridisegna anche i rapporti fra le Chiese. Tuttavia, per Crisostomo la presenza del povero resta sempre ed è una benedizione: provoca all’amore, aiuta a riscoprire il Cristo e ridisegna il profilo della città e della convivenza umana. In altri termini, per trovare Cristo, occorre trovare il povero, e chi trova Cristo, non può non amare il povero. Afferma Evdokimov: “Esiste anche un Cristo russo che ha qualcosa di evangelico  sotto l’aspetto kenotico del Fratello umile degli umiliati, colui che è sempre con i poveri, gli infermi e i sofferenti”.
Vorrei dire che questa visione ci trova, come comunità di Sant’Egidio, partecipi. Il povero rappresenta ed è realmente una benedizione e, a partire da lui, qualsiasi sia il contesto storico nel quale viviamo, possiamo ritessere l’umanità lacerata e scoprire la potenza del Vangelo. Ben sappiamo, che senza l’alleanza con i poveri, nell’umiltà della conoscenza di noi stessi che viene dalla preghiera, dalla Parola di Dio e dalla consapevolezza dei nostri limiti, non saremo stati condotti ad avventure di amore più grandi di noi, non avremmo trovato la via della nostra felicità e il coraggio di incidere nella storia. I poveri, infatti, sono maestri di umanità, anche quando sono sfigurati o induriti: rivelano la bellezza nascosta in ogni uomo e in ogni donna. Amati, ci hanno mostrato cosa significhi risorgere dalla morte, e sono divenuti profeti di speranza. 


Non è facile parlare della carità – facciamolo  assieme
Nell’alleanza degli umili con i poveri, anche la fede è provata come dal fuoco: le opere appaiono immediatamente per ciò che sono e quale sia il fondamento. Dice infatti Giovanni Climaco: “Chi parla della carità, parla di Dio stesso. E’ opera difficile e rischiosa per chi non valuta bene i termini. Parlare della carità è opera degli angeli e, anche per essi, è più o meno difficile a seconda del grado di illuminazione ricevuta. Dio è carità (1 Gv 4, 16). Chi volesse con le parole esporre la profondità di questa rivelazione, rassomiglierebbe ad un cieco che, stando su una nave, volesse misurare sino a che limite si stende la sabbia del mare” .  Per parlare della Carità e di Dio, abbiamo quindi bisogno di compagni con cui vivere la carità, in maniera asimmetrica, misteriosa, perché le disparità fra il benessere di alcuni e la miseria degli altri, può avere spiegazione solo nell’occasione che ci è data di vivere vicendevolmente il debito dell’amore. L’autorità della parola dei cristiani è umile, ed è corroborata proprio dai poveri, che divengono alleati e testimoni della potenza dell’amore kenotico, crocifisso, fedele fino e oltre la morte. Questo amore rende uomini e donne feriti, generosi fratelli di altri, più poveri di loro. E quanta saggezza nei “poveri di spirito”, gli anawim, che nella loro consapevole fragilità, sanno vivere di poche e vere cose: l’amicizia, la fede, la compassione solidale per gli altri. La carità è vita. L’amore è vita e conduce alla vita piena.

I poveri ci riconducono all’ “unico necessario” e confermano la nostra testimonianza
I poveri ci riconducono all’“unico necessario”. Non dovremmo strappare loro una benedizione? Non dovremmo lasciarci condurre dal loro grido disperato, alla ricerca di maggiore unità, per mostrare al mondo che essi sono il “vero tesoro della Chiesa”? I poveri ci riconducono a un linguaggio sobrio, corrispondente alla vita. Ma forse, qualcosa di ciò sta avvenendo anche nel cammino verso la nostra unità. Se è vero che nel martirio, cioè nella testimonianza di fedeltà a Cristo e al Vangelo sino al sangue, noi siamo, in una visione teocentrica, già uniti, analogamente forse, lo possiamo intuire anche dell’amore per i poveri. Essi ci attraggono al centro della nostra fede, tra il venerdì santo e la gioia della Risurrezione. Quest’anno, abbiamo cantato la gioia della Pasqua, grazie al computo dei calendari liturgici che ha avvicinato Oriente e Occidente, cristiani del Nord e del Sud del mondo. Ma anche il canto di lode dei poveri esposti alla morte e ricondotti alla vita ci può avvicinare, per lottare insieme contro lo spirito del tempo, mentre crea miseria, maledice chi ne porta i segni. Il canto di lode dei poveri, svela la dignità dell’uomo e la sua dignità, alla luce del Vangelo, che insieme veneriamo. Di tale dignità ci parla eloquentemente l’altare, l’Eucarestia, la tradizione spirituale delle nostre Chiese.

Ci aiutano a trarre dal nostro tesoro cose antiche e cose nuove
C’è qualcosa di inedito e di antico: ne abbiamo fatto esperienza in tre convegni che ci hanno visto assieme, fra cattolici e ortodossi: penso alla Chiesa Ortodossa Russa, con l’allora Metropolita e oggi Patriarca Kirill, il carissimo Metropolita  Filaret e alla Chiesa ortodossa di Romania: “Santità e carità fra Oriente e Occidente” (2004), “I poveri sono il tesoro prezioso della Chiesa” (2010), “Il dono della vecchiaia” (2011), ed altri sono in programma. Ancora a maggio di quest’anno, ci siamo ritrovati in Romania, con il Patriarca Daniel, per discutere della famiglia umana, in una ulteriore assise. A Roma poi, negli incontri “Vescovi e pastori per la Chiesa di domani”, vescovi cattolici, ma anche ortodossi e evangelici, insieme hanno gustato cosa significhi l’amore per i poveri.
Inedita è la circolarità di doni, trasfusi dalle antiche tradizioni liturgiche di ciascuno, dall’eucologia, dalla lettura dei Padri della Chiesa, dallo scrigno delle esperienze di santità e di carità dell’una o dell’altra tradizione. Inedita è la capacità di trarre assieme da questi scrigni di santità e carità, bellezza e di sapienza, nuovo coraggio aiutandoci vicendevolmente ad intervenire nel tessuto delle nostre città (Mosca, Bucarest), anche con mezzi poveri..
Non abbiamo alcuna pretesa di definire l’agenda della ricerca della nostra unità: al contrario ci lasciamo condurre e trascinare dalla domanda impellente dei poveri, scoprendo che nell’amore, siamo, in qualche modo, già uniti. L’amore per i poveri dà carne, sostanza, alla ricerca della verità che in tante sedi degne scende nel profondo delle nostre identità e del dialogo ecumenico. 
L’amore per i poveri resta una finestra aperta sul cuore dell’esperienza cristiana, riaccendendo la fiducia nella gratuità, in un mondo mercato, oggi disorientato e cinico.

Nei poveri la ricerca dell’unità
E poi: quanti sono gli uomini e donne, che nella differenza delle nostre tradizioni, hanno parlato la medesima lingua della carità, nel corso dei secoli? Serafino di Sarov e Francesco di Assisi? La Granduchessa Elisabetta (Mat’ Maria Skobtsova) e Madre Teresa? Come recepire le loro testimonianze ritrovando gli accenti che li avvicinano?
Ed ancora, nel nostro tempo: quanti sono gli uomini e le donne “ponte”, che partecipando di identità confessionali differenti, hanno amato insieme i poveri? Ancora pochi anni fa, prendeva parte ai nostri incontri Suor Emmanuelle Cinquin, cattolica e francese, che a 62 anni, parti per le bidonville del Cairo, dove ha lavorato per ridare speranza agli chiffonier della città dei morti. La sua eredità è stata raccolta da Suor Sara, copta ortodossa, che gli si affiancò in un’avventura di comunione e di gioia che prosegue ancora oggi. E noi? Lasciamo che i poveri ci portino vicino gli uni agli altri, perché possiamo assieme rendere ragione della speranza che è stata riversata nei nostri cuori, e il mondo creda.