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U Uttara

Buddhist monk, Myanmar
 biography
Elemosina e giustizia
 
L’elemosina è una delle pratiche più comuni tra i buddisti Theravada. È un modo per sostenere i monaci, che studiano e mettono in pratica gli insegnamenti del Buddha, offrendo loro del cibo. Al tempo stesso, noi impariamo la pratica di donare senza trattenere.
 
Il giro delle elemosine
 
Dall’alba fino circa alle 7 del mattino i monaci percorrono a piedi nudi, con le ciotole per l’elemosina, l’area intorno al monastero. Il monaco più anziano cammina all’inizio della fila, mentre i più giovani lo seguono.
 
Cibo dato in elemosina
 
I monaci Theravada non preparano i propri pasti. I monasteri dipendono dalla generosità della comunità dei laici. In conseguenza, qualsiasi cibo è accettato dai monaci.
 
L’elemosina
 
I fedeli le cui case si trovano lungo il percorso del giro delle elemosine, attendono davanti alle loro case. Gli altri si recano in un punto lungo la strada percorsa dai monaci.
Per indicare che si vuole  offrire del cibo, ci si tolgono le scarpe, si china la parte superiore del corpo e si uniscono i palmi delle mani dinanzi al petto. Nel linguaggio buddista questo gesto delle mani è chiamato “follow hand (segui la mano)”. Se la ciotola dell’elemosina non è piena, i monaci ne aprono il coperchio. Dapprima si offre del riso, seguito da cibo, dolci, frutta e acqua o altre bevande. Alcune persone offrono anche un bouquet di fiori da collocare innanzi all’immagine di Buddha nel tempio. Infine, ci si congeda dai monaci col “follow hand” ed essi spesso danno una breve benedizione.
 
Perché fare l’elemosina?
 
Offriamo l’elemosina ai monaci in modo che essi possano sostentarsi. Al tempo stesso è un modo per i laici di praticare il dono senza trattenere.
Quando un monaco ha cibo a sufficienza per nutrire il corpo e la mente, egli ha l’energia necessaria per vivere la propria giornata. I suoi compiti principali sono lo studio, la diffusione degli insegnamenti di Buddha e la pratica della meditazione per purificare la mente.
La meditazione è una combinazione di attenzione e concentrazione. La sua pratica regolare conduce alla saggezza. Dopo anni di pratica, i monaci condividono le loro conoscenze con la comunità dei laici, che cerca una guida su come condurre una vita felice e pacifica.
I monaci Theravada celebrano anche delle cerimonie per diversi eventi sociali, tra cui nascite, matrimoni, funerali, ricorrenze funebri, inaugurazioni di case, e l’avvio di grandi attività commerciali. Queste attività possono occupare una quantità consistente del loro tempo, soprattutto per i monaci che vivono in templi cittadini; a differenza dei templi in zone di foresta.
 
Convinzioni relative all’elemosina
 
I buddisti credono nella reincarnazione, il che significa che lo spirito continua a vivere dopo la morte del corpo. Dopo che lo spirito ha lasciato il corpo umano, viene immediatamente reincarnato in un altro essere vivente – come un essere umano, animale o angelico, per esempio. La sola maniera per porre termine al ciclo della reincarnazione è il raggiungimento del nirvana. Noi buddisti spesso offriamo cibo ai monaci dopo che un membro della famiglia o un amico sono morti perché pensiamo che i loro spiriti ricevano il cibo. In conseguenza, molte persone offrono il genere di cibo che piaceva ai loro cari. Inoltre, molti buddisti nella tradizione Theravada esprimono un’intenzione prima di offrire il cibo ai monaci e così condividono la benemerenza acquisita con tutti gli esseri viventi. Tutti i buddisti esprimono anche intenzioni per la ricchezza, per la buona salute, per la felicità e il raggiungimento del nirvana.
 
Come beneficiare dell’elemosina praticata
 
È importante essere animati da buone intenzioni quando si offrono elemosine. Così pure, il denaro usato per l’elemosina deve esser stato guadagnato onestamente.
Per trarre il massimo beneficio dall’elemosina praticata, il donatore deve essere gioioso prima, durante e dopo l’offerta. Si deve sempre fare l’elemosina di propria volontà. Non è importante quanto si offra, è l’intenzione che importa. Bisogna offrire solo quanto si è in grado di dare conservando la serenità. Alcune persone cedono alle pressioni sociali e finiscono per offrire più di quanto realmente possano permettersi – ma questo non recherà alcun giovamento. Il Buddha ha chiamato ciò la via di mezzo, non troppo stretta né troppo larga.
 
Buddismo e giustizia sociale
 
La violazione dei diritti umani
 
Se osserviamo la situazione del mondo contemporaneo, possiamo constatare che i problemi attuali sono molto diversi da quelli con cui ci confrontavamo vent’anni fa. In quel periodo, le tensioni tra l’Est e l’Ovest erano molto accentuate e sembrava di essere sul punto che una guerra nucleare potesse esplodere da un giorno all’altro! La gente aveva molti timori e ragioni di ansia, e i leader delle grandi nazioni lavoravano duro per superare il clima mondiale di paura e sospetto. Adesso la situazione è cambiata, non abbiamo più timori o ansie per queste ragioni, tuttavia ci confrontiamo con grandi problemi, non nei rapporti tra gli Stati, ma dall’interno delle nostre stesse società: problemi come la crescita del tasso di criminalità e di violenza nei paesi sviluppati ed anche la consistente violazione dei diritti umani e l’ingiustizia sociale in ogni parte del mondo. Se leggiamo le relazioni di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani, vedremo che tali violazioni davvero accadono ovunque. Sebbene il Buddha abbia  insegnato lo sviluppo della bontà amorevole, della compassione, della gioia condivisa e della equanimità tra gli esseri viventi, noi vediamo anche che i paesi dove la maggioranza della popolazione è buddista continuano a soffrire per la violazione dei diritti umani e della giustizia sociale. La gente di questi paesi è stata privata dei propri diritti fondamentali e della giustizia per molti decenni. In effetti, se essi praticassero gli insegnamenti del Buddha e si attenessero ai propri doveri e responsabilità di buddisti, non ci sarebbero violazione di diritti umani e ingiustizie, ma anzi la gente vivrebbe in armonia e godrebbe pienamente della giustizia e dei propri diritti.
 
“Tra tali umani, fratelli, sorgerà un periodo della spada, di sette giorni, durante il quale essi si guarderanno l’un l’altro come bestie selvagge; spade affilate saranno pronte alla loro portata, ed essi, pensando “Questa è una bestia selvaggia”, si ammazzeranno a vicenda con le loro spade”.
 
Queste parole del Canone Pali si trovano verso la fine del Cakkavatti Sihanada Sutta del Digha Nikaya. Qui il Buddha descrive il processo attraverso cui una società scivola in uno stato di totale violenza ed anarchia, giungendo al punto in cui qualsiasi rispetto per il valore della vita umana viene perduto e gli uomini si uccidono l’un l’altro senza senso di colpa né rimorso. Inizialmente appare il furto, poi l’assassinio; seguono la menzogna e la promiscuità sessuale. La religione viene erosa; il rispetto per gli anziani viene meno; la vita umana perde la sua dignità. Si tratta di un orribile ritratto della bestialità crescente, che conserva oggi tutta la rilevanza che aveva quando è stato esposto per la prima volta.
Quando ho iniziato lo studio della dottrina buddista, per me era una questione importante che cosa il buddismo avesse da dire sui problemi della violenza e dell’ingiustizia, problemi che assillano ogni nazione. La formula classica che sta al cuore del buddismo è che sia il tanha, il desiderio, ed essere alla radice della miseria del mondo. Spesso ciò è visto in un modo molto individualistico. Il percorso buddista è generalmente ritenuto una via di fuga dalla sofferenza attraverso il ritiro dalla società e attraverso la coltivazione della mente. Io non intendo minimizzare questa sottolineatura. L’importanza dell’esercizio mentale era centrale nell’insegnamento del Buddha. Fornisce la chiave del discernimento liberante che può trasformare la vita umana. Pure, ho trovato che i fattori psicologici individuali non sono i soli ad essere sottolineati nei testi buddisti. I testi offrono realmente delle chiavi interpretative per chiunque sia interessato alla giustizia ed alla armonia nel corpo sociale. 
Nel testo con cui ho cominciato, la catena causale che sfocia nella bestialità si ritorce sullo Stato, sul re, che tralascia uno dei doveri assegnati a un governante giusto, nel buddismo. Si tratta di questo: “E nel tuo regno fai in modo che chiunque sia povero possa ricevere la ricchezza”. Trascurando questo, il re ha negato al povero la vita, e da questo – il rifiuto di realizzare una giustizia economica – vengono fuori il  furto, l’assassinio, la menzogna, l’immoralità e la bestialità. Ciò che ho trovato interessante è che il dito accusatore è puntato sulle strutture del potere e non sulle qualità negative della gente comune. E il messaggio è: violenza e sfacelo della società sono inevitabili se alla gente sono negati i mezzi per vivere con dignità. Per usare un termine cristiano, i poveri del mito sono vittime del “peccato” dei loro governanti. Essi sono vittime dell’ingiustizia strutturale e il loro impulso di sopravvivenza corrompe l’intera costruzione sociale.
La storia narrata nel Cakkavatti Sihanada Sutta, tuttavia, non finisce col periodo della spada. Quando gli abissi della brutalità sono stati raggiunti, ci sono alcuni che vedono l’enormità della perdita dei valori umani. Essi si ritirano – in grotte, in tane nella giungla e in tronchi cavi – e riemergono per abbracciarsi l’un l’altro e restaurare l’armonia attraverso la ricostruzione del senso morale. La degenerazione da una condizione ad un’altra più bassa viene trasformata in una rigenerazione dal fondo verso l’alto, attraverso la volontà e il discernimento delle persone stesse.
Il messaggio di questa Sutta mette in crisi tutti coloro che vedono la religione in termini puramente individualistici. Esso dimostra la piena autenticità dell’impegno del buddismo per la giustizia sociale e anche l’attenzione da esso posta nell’analisi delle cause prime della disarmonia e della violenza. Esso presenta la società come una rete di esseri interagenti e interdipendenti che vengono aiutati a, od ostacolati nel, vivere una vita sana dalle forze espresse dallo Stato o dalle strutture del mondo. In Birmania, ho incontrato gruppi che cercano nel buddismo elementi rilevanti sui temi sociali. Questa storia mitologica è uno di questi elementi. Può essere una risorsa per tutti noi. Ci spinge a guardare criticamente alla società in cui viviamo e a domandarci: “è in corso un deterioramento dei valori umani?”. Se è così, dobbiamo ancora domandarci: “può la nostra società creare condizioni in cui ogni persona possa vivere con dignità?”. Se così non è, allora il buddismo incoraggia non solo un percorso di coltivazione individuale della mente, ma anche una forma di coinvolgimento sociale che riconosca la capacità delle persone comuni di cambiare la propria condizione e che cerchi di lottare per un mondo più giusto in cui a nessuno siano negate le risorse per vivere. Esempio:
In Birmania, nel settembre 2007 dei monaci buddisti hanno rovesciato le loro ciotole dell’elemosina, il che è tradizionalmente considerato un atto di sfida, e hanno rifiutato di ricevere elemosina dai generali birmani. In altre parole, essi hanno smesso di offrire a questi generali le benedizioni di Buddha.
Il mattino del 27 settembre, 50.000 coraggiosi cittadini si sono raccolti nelle strade di Rangoon per chiedere libertà dalla paura. I soldati hanno aperto il fuoco sulla folla, uccidendo almeno 9 dimostranti disarmati. Uno di essi era Kenji Nagai, un giornalista giapponese, il cui assassinio fu ripreso da una telecamera e trasmesso in tutto il mondo.
In quell’occasione alcuni mezzi di informazione mi hanno posto la seguente domanda: “La rivoluzione zafferano è piuttosto un cattivo karma?”. Ho risposto che non è necessario far riferimento al karma, ma sono solo gli esseri umani a commettere errori.
Alcune persone hanno delle grosse difficoltà a capire che il karma è creato dalle nostre stesse azioni. Essi vogliono credere che ci sia una qualche forma di misteriosa forza cosmica da qualche parte al di sopra di loro che dirige il karma premiando i buoni e punendo i cattivi. Alcune religioni possono insegnare questo, ma non il buddismo. Lo studioso buddista Walpola Rahula ha detto:
“La teoria del karma non deve essere confusa con la cosiddetta “giustizia morale” o con un sistema retributivo di “premio e punizione”. L’idea di giustizia morale, o di premio e punizione, sorge dalla concezione di un essere supremo, un Dio, che siede in giudizio, che è legislatore e che decide cosa è giusto e sbagliato. Il termine “giustizia” è ambiguo e pericoloso, e in suo nome più male che bene viene fatto all’umanità. La teoria del karma è la teoria di causa ed effetto, di azione e reazione; è una legge naturale, che non ha nulla a che fare con l’idea di giustizia o di premio e punizione”.
 
Il bene, il male e il karma
 
A volte la gente parla di un “buono” o “cattivo” (o “malefico”) karma. La concezione buddista di “buono” e “malefico” è qualcosa di diverso da come generalmente gli occidentali intendono tali termini. Per comprendere la prospettiva buddista, è utile sostituire le parole “sano” e “insano” alle parole “buono” e “cattivo”. Le azioni sane scaturiscono dalla compassione disinteressata, dalla bontà amorevole e dalla saggezza. Le azioni insane scaturiscono dall’avidità, dall’odio e dall’ignoranza.
Cosicché ci è necessario praticare i basilari insegnamenti del Buddha di non danneggiare alcun essere vivente, fare il bene e purificare le nostre menti attraverso la pratica della bontà amorevole, della compassione, della gioia condivisa e dell’equanimità. Il Buddha ha detto: “In questo mondo gli odi non cessano mai attraverso l’odio; solo attraverso l’amore cessano. Questa è una legge eterna”.
Ciò di cui l’umanità ha oggi bisogno non è il rancore o la rabbia, ma la bontà amorevole, la compassione, la gioia condivisa e l’equanimità, in modo che ogni essere vivente nel mondo possa vivere felicemente e armoniosamente, godendo pienamente dei propri diritti, della giustizia sociale e della dignità umana.
 
Sabbe satta sukhita hontu – Possano tutti i viventi essere felici.