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Agostino Giovagnoli

Historian, Community of Sant’Egidio, Italy
 biography

 “Pace senza confini”. La costruzione dell’unità europea, cominciata 50 anni fa, ha portato la pace in Europa, dopo secoli di guerre per difendere o estendere i propri confini. Oggi, però, c’è chi vorrebbe tornare al passato: l’Unione europea attraversata da nuove spinte nazionaliste. I movimenti populisti alimentano atteggiamenti euroscettici e ostili nei suoi confronti, accusandola di indebolire le sovranità nazionali. Ma è un’accusa sbagliata. Sono, invece, in atto processi di globalizzazione che creano nuovi problemi e nuove sfide, imponendo non di tornare indietro ma di andare avanti. 

 
Questi processi investono oggi la questione cruciale della sovranità. E’ una parola antica, con significati diversi, le cui origini sono radicate nella tradizione cristiana e fanno riferimento all’affermazione di San Paolo secondo cui ogni autorità viene da Dio (“non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”, Rm 13,1). Ciò spiega perché ancora oggi sia intesa come qualcosa di assoluto, che non dipende da nessuno e che non tollera limitazioni. Per capire la sua evoluzione nel tempo è illuminante la tradizione medievale dei Re taumaturghi, cui il popolo attribuiva poteri di guarigione dei malati. Il senso di questa tradizione è che, poiché il potere viene da Dio, il sovrano lo deve usare per la cura dei sudditi. Insomma, sovranità dovrebbe significare anzitutto protezione del popolo. 
 
Chi è il sovrano che deve proteggere il popolo e come può farlo? Negli ultimi secoli, la sovranità è stata riconosciuta solo agli Stati nazionali: dentro confini ben difesi dagli eserciti, a casa propria ciascuno Stato è sovrano assoluto. Si è affermato, insomma, il principio della piena coincidenza fra indipendenza territoriale e sovranità politica (che però oggi funziona sempre meno). All’interno degli Stati, inoltre, dopo secoli in cui la sovranità è stata gestita da monarchi assoluti, con l’avvento della democrazia è passata nelle mani del popolo: è ciò che chiamiamo sovranità popolare. I popoli, insomma, sono stati chiamati a badare a sé stessi attraverso le istituzioni e i mezzi dei rispettivi Stati nazionali. 
 
Ma oggi la globalizzazione sta creando nuove sfide. Anche se ha molti effetti positivi - negli ultimi decenni ha aiutato diversi popoli ad uscire dalla povertà – questo fenomeno pone indubbiamente problemi nuovi alla sovranità popolare e alla capacità dei popoli di prendersi cura di sé stessi. Oggi, infatti, non l’Unione europea, ma processi finanziari, economici, politici transnazionali entrano dentro gli Stati nazionali senza chiedere permesso. Con la globalizzazione, l’indipendenza territoriale degli Stati nazionali non basta più a garantire la loro effettiva sovranità. Impone loro tempeste monetarie e sconvolgimenti della finanza mondiale; le molte conseguenze delle “catene di valore” internazionali, in particolare per quanto riguarda le condizioni di lavoro; un condizionamento delle fiscalità nazionali ad opera delle grandi multinazionali che diminuisce il welfare. Determina spesso una “corsa al ribasso” - salari inferiori, minori garanzie per i lavoratori, maggiore precarietà nell’occupazione ecc. – che gli Stati, specie se piccoli o medi, non sono in grado di contrastare. 
 
La globalizzazione, inoltre, ha effetti sociali e culturali insidiosi e profondi sulla vita dei popoli. Li “deterritorializza”: abitare su uno stesso territorio non basta più per sentirsi membri di una stessa comunità. Disarticola le società e ne sradica i corpi intermedi, indebolisce le tradizioni e disperde i valori, creando spaesamento e incertezze, ansie e paure, come ha sottolineato più volte Andrea Riccardi. Crea insomma quella che Bauman ha chiamato società liquida. Il popolo diventa sempre più un soggetto “introvabile” (Rosanvallon): continua ad essere evocato come principio giuridico che indica l’insieme dei cittadini di uno Stato, ma questi fanno sempre più fatica a riconoscersi in un corpo sociale unito e solidale. 
 
In questo vuoto si sviluppa la rincorsa all’esaltazione di identità più o meno mitiche: etniche, culturali, religiose ecc. E’ il caso del fondamentalismo, che Olivier Roy definisce “santa ignoranza” perché separa la religione dalla storia e dalla cultura dei popoli. A causa del fondamentalismo, la religione viene ridotta ad un generico elemento identitario, funzionale a politiche autoritarie o totalitarie (Eisensdat). Anche il populismo si sviluppa sullo stesso terreno. Gli studiosi (da Rosanvallon a Laclau, da Mudde a Muller) definiscono la politica del populismo come “invenzione” del popolo: sostituisce la carenza di legami sociali “orizzontali” con forme di identificazione “verticale” tra il leader e i suoi seguaci; compensa il declino della solidarietà con la mobilitazione contro il nemico interno ed esterno; alimenta l’intolleranza, la contrapposizione e l’odio; riafferma l’invalicabilità dei confini e alza nuovi muri contro gli stranieri ecc. Tutto ciò porta spesso a nuove forme di nazionalismo che però non risolvono i problemi ma li aggravano: i muri possono impedire di entrare ma non possono fermare i capitali che fuggono, vietare alle aziende di delocalizzare, fermare i propri cittadini che emigrano (in Italia sono tanti). Affermare l’indipendenza, infatti, non ripristina la sovranità e i nazionalismi spingono i popoli a scontrarsi tra loro mentre c’è bisogno di maggior collaborazione.
 
L’ Unione europea non è certamente la causa di questi problemi: al contrario offre risposte valide anche se non esaustive. Anzitutto, va ricordato che non è nata contro gli Stati nazionali o con l’obiettivo di annullarne la sovranità. E’ stata infatti voluta dagli stessi Stati nazionali: tutti i passaggi del processo di integrazione europea sono stati promossi o approvati da governi,  parlamenti o cittadini (tramite referendum) degli Stati nazionali. Insomma, l’Europa non è un’entità superiore che impone il suo potere, sono gli Stati che accettano limitazioni alla propria indipendenza perché è nel loro interesse. L’EU propone infatti uno scambio tra indipendenza e sovranità – e cioè la rinuncia a decidere poco da soli per potere decidere di più tutti insieme – vantaggiosa per gli Stati nazionali e dei loro popoli. 
 
Questo scambio, ad esempio, ha rafforzato le economie dei paesi europei. Nel 1957, fondando il Mercato comune e permettendo la libera circolazione di capitali, uomini, merci ecc. i paesi del Vecchio continente hanno rinunciato a quote di sovranità. Hanno cioè rinunciato a prendere decisioni autonome in una serie di campi: economia, finanza, moneta, fiscalità ecc. Da allora però, come ha spiegato Mario Draghi, il Prodotto interno lordo (PIL) dei paesi aderenti è cresciuto mediamente del 9% più di quanto sarebbe cresciuto se fossero rimasti fuori dal meracto comune. Controprova: che succede se ci si tira fuori? La maggioranza dei cittadini europei pensa che non convenga. Nel caso di uscita dal mercato comune, infatti, il PIL dell’Italia scenderebbe del 7% circa ed è eloquente che attuare la Brexit susciti oggi tanti dubbi, visto il costo molto alto anzitutto per gli inglesi. I paesi che escono dall’UE, inoltre, riacquistano indipendenza ma perdono potere decisionale dovendo seguire, nei rapporti commerciali con gli altri paesi europei, regole imposte dall’UE su cui non possono più intervenire. Considerazioni analoghe valgono anche per l’euro. Prima dell’adozione di una moneta unica europea, le politiche monetarie dei paesi europei erano molto condizionate da quelle del paese più forte e cioè dalla Germania. Entrando nell’euro, invece, anche gli altri paesi europei hanno guadagnato il diritto di influire sulla politica monetaria comune. E così via.
 
L’Unione Europea, inoltre, permette di difendersi dagli effetti negativi della globalizzazione mondiale meglio di quanto potrebbero fare i singoli Stati da soli. L’EU, infatti, è in grado di contrastare la “corsa al ribasso” - salari inferiori, minori garanzie per i lavoratori, maggiore precarietà nell’occupazione ecc. - poiché rappresenta nel suo insieme un mercato di dimensioni tali che le multinazionali o le economie forti non possono prescinderne. Ciò facilita i singoli Stati europei nell’esercitare la propria sovranità sulla tassazione, la protezione dei consumatori e gli standard del lavoro. L’Europa svolge inoltre una funzione positiva verso il resto del mondo perché lo spinge ad andare nella stessa direzione e impedisce che la globalizzazione si traduca automaticamente e inesorabilmente in una corsa verso condizioni peggiori per tutti. Insomma, l’Unione europea restituisce agli Stati nazionali parte della sovranità che la globalizzazione fa perdere loro.  
 
Naturalmente, tutto ciò non significa che l’Unione europea sia perfetta. Tutt’altro. Ma c’è bisogno non di meno Europa bensì di più Europa: solo un’Europa più unita e solidale può affrontare le sfide della globalizzazione. Un esempio evidente è quello dei migranti che cercano di raggiungere il nostro continente. Sarebbe disumano, ingiusto e pericoloso ignorare le loro richieste e, del resto, i migranti costituiscono risorse lavorative di cui l’Europa ha bisogno. Ma è chiaro che un fenomeno di dimensioni straordinarie ed epocali può essere affrontato solo dagli europei tutti insieme, attingendo a risorse non solo economiche e politiche ma anche ideali e morali. Si tratta di un’iniziativa importante anche per rendere più umana la globalizzazione. Fermarla, chiudendo tutte le porte come vorrebbero i nuovi nazionalismi, oltre che impossibile sarebbe sbagliato, come mostrano gli effetti negativi per tutti della guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina. Un’Europa più forte, invece, non aiuta solo gli europei: è una grande spinta anche per sviluppare la globalizzazione della solidarietà di cui parla papa Francesco. Si tratta di una grande impresa in cui il ruolo delle religioni e delle Chiese è fondamentale, per il bene dei popoli europei e del mondo intero, per contrastare i nazionalismi e per costruire la pace.