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Dominique Quinio

Honorary President of "Semaines Sociales", France
 biography
« Non è così semplice », è il titolo di una serie di podcast che l’associazione delle Settimane Sociali di Francia realizza con diversi media cristiani per analizzare l’attualità e le sue complessità. Le migrazioni e il diritto d’asilo sono il tema di uno di questi podcast, con Didier Leschi come ospite principale. Infatti, se c’è un argomento che richiede di andare oltre le caricature, le approssimazioni, i pregiudizi e le generalizzazioni, è proprio questo. Fare una diagnosi precisa e documentata di ciò che sono le migrazioni non è affatto semplice. Non è facile neppure definire una politica per il futuro. Ogni parola è importante nel titolo di questo laboratorio di riflessione: una «politica», nel senso nobile del termine, elaborata democraticamente, al servizio di tutti, alla ricerca del bene comune; e «per il futuro», per non limitarsi a soluzioni puntuali, effimere, dettate dalla sola emotività in reazione a questo o quell’episodio.
Accanto al panel di esperti e attori in questi ambiti, riuniti da Sant’Egidio, sceglierò un'angolazione più ristretta, l’angolo di osservazione del giornalista che sono stato a lungo e che rimango per sempre. Rivediamo gli ultimi temi di attualità sulle migrazioni che abbiamo letto e visto nei nostri media: i numerosi e pericolosi naufragi nel Mare del Nord, la Germania che ripristina i controlli alle frontiere, il primo ministro laburista britannico che cerca in Italia consigli per ridurre l’arrivo di migranti sul suo territorio, la lotta contro i trafficanti, la delocalizzazione fuori dall’Europa delle procedure di frontiera per i migranti, ma anche la crescita delle violenze contro gli stranieri, i crimini commessi da stranieri, ecc. Sono tutti temi che parlano di noi, Europei, temi che partono da noi, dai nostri problemi, dalle nostre percezioni, dai nostri dibattiti politici nazionali… Siamo troppo «eurocentrici», diceva papa Francesco al ritorno dal suo ultimo viaggio; si riferiva alla Chiesa cattolica, ma l’osservazione è valida ben oltre.
Tuttavia, in mezzo a questo flusso di notizie, una frase in un’intervista di Mons. Leborgne, vescovo di Arras, diocesi del nord della Francia, in prima linea di fronte alle tragedie nel Mare del Nord, mi ha colpito: ci ha ricordato le parole di vescovi africani che gli chiedevano di aiutarli a mantenere la loro «ricchezza umana» nei loro paesi. Infatti, per pensare al futuro, e per pensare a politiche future, è forse necessario cambiare prospettiva?
Il fenomeno delle migrazioni (che si tratti di rifugiati, richiedenti asilo, migranti economici o climatici) è un fenomeno che suscita sempre più paure e quindi rifiuto nelle nostre società occidentali. Ma è anche (e forse soprattutto) un problema per i paesi di partenza, soprattutto se ricordiamo che i movimenti di popolazione avvengono spesso all’interno degli stessi paesi o continenti, dove paesi già poveri accolgono altri poveri.
Quando giovani molto giovani si assumono il rischio di attraversare mari pericolosi, esprimono l’impossibilità di vivere nel loro paese d’origine, perché questo conosce povertà, violenza politica e instabilità; i loro sogni di andare altrove sono alimentati dalle disuguaglianze estreme tra paesi ricchi e poveri, disuguaglianze visibili ovunque grazie a internet. Quando il diritto di vivere nel proprio paese non è garantito, è necessaria una mobilitazione internazionale; ciò solleva questioni di giustizia e solidarietà a livello globale. Come possiamo aiutare meglio i paesi di partenza, sul piano economico e politico, come possiamo sostenerli nell’affrontare la transizione ecologica, come possiamo assumerci le nostre responsabilità nel cattivo sviluppo di questi paesi, nell’emergere di regimi autoritari? E quando si trovano delle soluzioni, bisogna fare attenzione a non privarli - ad esempio attraverso lo sviluppo di canali per lavoratori qualificati - delle risorse umane di cui hanno così tanto bisogno. Tuttavia, lavorare per permettere a coloro che lo desiderano profondamente di vivere nel proprio paese richiede tempo e non ci esime dal riflettere sull’accoglienza che garantiamo, o non garantiamo o garantiamo male, a coloro che arrivano alle nostre frontiere.
Dal più lontano, al più vicino, fino al più intimo: questo è il cammino che dobbiamo intraprendere. Le politiche migratorie riguardano ognuno di noi, stranieri o no. Una cosa è certa: i flussi migratori, anche se regolamentati, anche se controllati, non si fermeranno e non possono fermarsi. Affermare il contrario è una falsità che impedisce di affrontare la realtà e di immaginare un futuro più sereno. La fonte non si esaurirà, anche solo perché il diritto d’asilo è un diritto inalienabile, sancito dalla Convenzione di Ginevra e ribadito dall’Europa, che stabilisce che ogni persona minacciata nel proprio paese può chiedere asilo in un altro paese, che è tenuto a proteggerla. D’altra parte, il nostro continente sta invecchiando, e molti mestieri – mestieri di prima linea, come dicevamo durante il Covid – non attirano i lavoratori locali: ciò richiede una forza lavoro straniera, che contribuisce a far funzionare i nostri paesi, che si occupa dei nostri bambini, dei nostri anziani, che lavora nei cantieri edili, nei ristoranti come lavapiatti.
La questione, quindi, è l’integrazione di questi lavoratori immigrati. Come facilitare questo inserimento nel tessuto sociale di un paese, sapendo che oggi non è ideale? Questo passa attraverso il lavoro, certamente, ma anche attraverso l’alloggio, l’educazione dei bambini, la formazione degli adulti, l’accesso alla sanità, la necessità di distribuire meglio gli immigrati su tutto il territorio, evitando la loro concentrazione in zone già fragili, abolendo i ghetti... Quando il livello di occupazione, la giustizia sociale, la situazione abitativa e l'equilibrio politico sono garantiti, l'accoglienza e l'integrazione sono più facili. Una politica migratoria non può essere separata da una politica sociale ambiziosa.
Tuttavia, elaborare queste politiche implica non sottovalutare o ignorare gli ostacoli, le riserve, le paure. All'interno della società francese, già fratturata, alcuni provano un sentimento di "declassamento" e possono essere inclini a fare dello straniero un capro espiatorio. I responsabili politici francesi, così come quelli europei, non devono cavalcare queste preoccupazioni o alimentarle, ma piuttosto placarle – senza nascondere le difficoltà, le sfide, perché ci sono! – affinché la nazione, collettivamente, sia pronta ad accogliere meglio l'altro, il diverso. L'inclusione non si può imporre per decreto; va insegnata, va sperimentata.
Infine, senza dubbio, ciascuno di noi dovrebbe interrogarsi sul proprio rapporto con i migranti, con gli stranieri, e sulle ragioni per cui possono suscitarci inquietudine. Dobbiamo smettere di pensarli al plurale, come un insieme indifferenziato, ma iniziare a considerarli come individui. Le associazioni e le persone che lavorano all'accoglienza dei migranti fanno questa esperienza. Lo possono testimoniare le équipe, ad esempio, che seguono e accompagnano le famiglie accolte nell'ambito dei corridoi umanitari, un'iniziativa promossa da Sant’Egidio (iniziativa sostenuta dalle Settimane Sociali di Francia). Il nostro sguardo cambia quando non ci troviamo più di fronte a una categoria, a un concetto, a un'idea, ma a una persona, a una famiglia, con bisogni, gioie e dolori simili ai nostri, aggravati dalla lontananza dal proprio paese natale.
Per concludere, poiché credo nel ruolo essenziale dei media in una democrazia, per aiutare i cittadini a comprendere, riflettere, dibattere e impegnarsi, la giornalista che sono si augura che essi compiano regolarmente questo viaggio dal globale al molto locale, come accennato qui.